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Talassemia: tutto quello che devi sapere sulla malattia, sui rischi per le coppie portatrici, sulla diagnosi prenatale

di Valentina Murelli - 22.02.2016 - Scrivici

talassemia
Fonte: Shutterstock
La beta talassemia o anemia mediterranea è una grave malattia ereditaria con la quale, però, oggi è possibile convivere

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In Italia sono circa 3 milioni le persone portatrici sane di beta talassemia, una malattia che comporta anemia e che può essere anche molto grave. I portatori sani – come dice la parola stessa – non mostrano sintomi particolari, ma se in una coppia entrambi i partner sono portatori sani possono nascere figli malati. Per questo motivo, molte coppie portatrici decidono di effettuare la diagnosi prenatale e di interrompere la gravidanza se il feto è malato. Altre coppie, invece, scelgono di affrontare un percorso di fecondazione assistita con diagnosi preimpianto dell'embrione: una strada che è da poco percorribile anche nel nostro paese.

Che cos'è la beta talassemia?

La beta-talassemia, chiamata anche anemia mediterranea o semplicemente talassemia, è la forma di talassemia più grave e più diffusa in Italia. Le talassemie sono un gruppo di malattie ereditarie caratterizzate da anemia di varia gravità e provocate da difetti nella produzione di emoglobina, una proteina presente nei globuli rossi del sangue, dove ha la funzione di caricare e trasportare l'ossigeno. Poiché l'emoglobina è costituita da frammenti proteici diversi (detti di tipo alfa e beta), si possono avere due tipi principali di talassemia, chiamati appunto alfa e beta a seconda di quali sono i frammenti difettosi. I difetti dei frammenti dipendono a loro volta da alterazioni - tecnicamente si parla di mutazioni - nella sequenza di DNA dei geni di partenza.

Poiché non esiste un registro ufficiale nazionale dei pazienti con beta-talassemia, non sappiamo esattamente quanti siano gli italiani malati, ma le stime parlano di circa 7000 persone, concentrate soprattutto in Sicilia, Sardegna, Calabria e nella zona del Delta del Po. "L'alfa-talassemia è molto più rara e, almeno in Italia, dà sintomi più leggeri" spiega la dott.ssa Claudia Cesaretti, genetista medico del Policlinico di Milano.

Quali sono i sintomi della beta talassemia?

Esistono due forme di malattia, a seconda del tipo di mutazioni coinvolte. La forma major ("maggiore") provoca un'anemia molto importante e, se non viene opportunamente curata, porta già dalla prima infanzia a sintomi come ritardo della crescita, ittero, febbre, ingrossamento di fegato e milza, alterazioni dello scheletro. Sempre se non curata, porta in genere a morte precoce. Nella forma intermedia, invece, l'anemia è più lieve e anche gli effetti generali sono più limitati.

Come si vive con la talassemia?

"Oggi questa malattia non spaventa più come un tempo, perché può essere tenuta sotto controllo", spiega il dott. Giovanbattista Leoni, pediatra all'Ospedale Microcitemico di Cagliari, specializzato proprio nella cura e nel trattamento della talassemia. "Una persona malata riesce a svolgere una vita tutto sommato normale - può andare a scuola e all'università, andare a lavorare, andare in vacanza, anche avere figli - e la sua aspettativa di vita è aperta" afferma il medico che, pur essendo pediatra, segue ormai anche adulti: i suoi piccoli pazienti di un tempo ora cresciuti. "Tutto questo, però, a condizione che si seguano sempre con costanza due terapie fondamentali e cioè le trasfusioni periodiche di sangue e la terapia ferrochelante, che permette di catturare il ferro in eccesso portato dalle trasfusioni, a lungo andare dannoso per l'organismo".

Nel caso di talassemia major, le trasfusioni cominciano intorno agli 8-10 mesi di vita e vanno ripetute ogni due-tre settimane per evitare l'anemia, e cioè che i livelli di emoglobina nel sangue scendano al di sotto di una certa soglia.

Se la talassemia è intermedia, le trasfusioni possono essere meno frequenti, con una frequenza che dipende dalla gravità dell'anemia. C'è però un rovescio della medaglia. "Nelle forme gravi, trasfusione dopo trasfusione nell'organismo comincia ad accumularsi ferro" spiega Leoni. Gli organi colpiti - cuore, fegato, tiroide, ovaie - ne risentono, soffrono, si ammalano, con conseguenze negative sulla qualità e sulla durata della vita. "Per questo è fondamentale che le trasfusioni siano accompagnate dalla terapia ferrochelante, che cattura il ferro in circolo".

Sono disponibili tre farmaci diversi: uno che deve essere iniettato lentamente sottocute, attraverso un microinfusore da tenere acceso 10-12 ore al giorno, e altri due che possono essere presi per bocca.

Oggi di talassemia si vive, e si vive senza particolari sofferenze, anche se qualche paziente soffre di dolori articolari e lombari che tendono a diventare cronici. La vita, però, è scandita dalle terapie e dai controlli.

Tutto ruota attorno alle trasfusioni, che richiedono in genere una mezza giornata abbondante: significa quindi che ogni due tre settimane si perde un giorno di scuola o di lavoro, e si deve organizzare la propria vita di conseguenza. Anche tenendo conto del fatto che nei giorni immediatamente precedenti la trasfusione, quando ormai i livelli di emoglobina sono bassi, è facile sentirsi più stanchi e affaticati del solito. "Poi c'è la terapia ferrochelante, quotidiana. Anche se si tratta di prendere una semplice pastiglia, non sempre è facile rassegnarsi all'idea di doverlo fare per tutta la vita, e spesso arriva la tentazione di lasciar perdere per un po'" afferma la dott.ssa Cesaretti. Eppure, non lo si può fare perché se si salta la terapia, la malattia torna ad aggredire.

A tutto questo, infine, si aggiungono i controlli: almeno una volta all'anno bisogna mettere in conto ecografie, risonanze magnetiche, esami del sangue. Dunque non è una passeggiata: se è vero che, da molti punti di vista, la vita con la talassemia è praticamente normale, è altrettanto vero che ci sono molte limitazioni, non sempre facili da accettare soprattutto da parte di bambini e adolescenti.

Si può guarire?

Trasfusioni e terapia ferrochelante permettono alle persone con beta-talassemia di sopravvivere e di condurre un'esistenza quasi normale, ma non guariscono la malattia. L'unica possibilità di cura definitiva è rappresentata, al momento, dal trapianto di cellule staminali emopoietiche, progenitrici delle cellule del sangue che possono essere prelevate da midollo osseo o da sangue di cordone ombelicale.

Il donatore di staminali per il trapianto può essere un familiare compatibile, di solito un fratello o una sorella, oppure un volontario, sempre compatibile, che abbia donato le sue cellule a una banca pubblica.

"Le possibilità di guarigione sono ottime nel primo caso e molto buone nel secondo, anche se esiste comunque un rischio minimo di rigetto", sottolinea Leoni. "Se un bimbo malato ha un fratello o una sorella, la probabilità che sia compatibile è del 25%, mentre la probabilità di trovare un donatore compatibile in una banca può arrivare al 50%".

Finora i genitori non potevano fare da donatori, perché compatibili solo a metà: in questo caso, dunque, i rischi legati al trapianto erano molto elavati. Di recente, però, l'équipe del dott. Franco Locatelli, Responsabile del dipartimento di oncoematologia e medicina trasfusionale dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma ha messo a punto una tecnica di manipolazione delle staminali che permette di ricorrere anche a cellule non perfettamente compatibili, come quelle dei genitori.

Terapia genica, una speranza per il futuro

La grande speranza per i pazienti con talassemia è racchiusa in due parole: terapia genica. Nel 2019 la Commissione Europea ha infatti autorizzato la terapia genica con betibeglogene autotemcel (beti-cel), con il nome commerciale Zynteglo.

Come spiega bene l'Osservatorio Terapie Avanzate, "si tratta di un trattamento in grado di aggiungere copie funzionali di una forma modificata del gene della β-globina nelle cellule staminali ematopoietiche del paziente stesso. A questo punto il paziente è potenzialmente in grado di produrre un tipo di emoglobina derivata dalla terapia genica in quantità tali da ridurre notevolmente o eliminare completamente la necessità di trasfusioni.

 

Inoltre, lo scorso giugno al congresso annuale della European Hematology Association (l'associazione europea di ematologia) sono stati presentati i dati di uno studio di follow-up a lungo termine con la terapia genica beti-cel in pazienti con beta talassemia trasfusione-dipendente. I risultati dello studio mostrano che tutti i partecipanti trattati con beti-cel che raggiungono l'indipendenza trasfusionale rimangono liberi da trasfusioni, con il periodo di osservazione più lungo che ha raggiunto addirittura i sette anni.

 

La ricerca scientifica sta rivoluzionando la terapia della beta talassemia e finalmente è possibile ridurre il numero di trasfusioni necessarie, rendendo così più liberi i pazienti e più "facile" la loro vita. 

Come si trasmette la malattia?

Ciascuno di noi possiede due copie di ogni gene: una ereditato dalla mamma e una dal papà. La malattia si manifesta quando dai genitori si ereditano due copie difettose del gene responsabile, il che succede sempre quando entrambi i genitori sono malati (ma è una circostanza molto rara) e può succedere in una certa percentuale di casi se i genitori sono portatori sani, oppure se uno è malato e l'altro è portatore.

Che cosa significa essere portatori sani di talassemia?

Se una persona eredita dai genitori una sola copia difettosa del gene coinvolto nella malattia non sarà malata, ma portatrice. Di fatto non avrà sintomi particolari, ma gli esami del sangue riveleranno la presenza di globuli rossi di piccoli dimensioni (microcitemia) e valori di emoglobina un po' più bassi della norma, anche se non così bassi da costituire un problema. Si parla in questi casi di talassemia minor.

"L'unica indicazione specifica per i portatori sani è quella di assumere periodicamente acido folico" precisa la dott.ssa Cesaretti.

Per il resto non servono controlli particolari. "A volte può capitare che ci sia una carenza di ferro, ma esattamente come accade nella popolazione generale". In questo caso può essere indicata l'assunzione di un integratore, ma sempre dietro stretto controllo medico. "Altre volte, invece, può esserci una tendenza ad avere livelli di ferritina (la scorta di ferro) verso i limiti alti della norma, ma non si raggiungono livelli elevati e non c'è assolutamente bisogno di alcuna terapia".

L'unica vero problema, per un portatore, si pone se decide di mettere su famiglia con un altro portatore, o con una persona malata. In questi casi, infatti, è possibile che i figli siano malati.

Per una coppia portatrice, la probabilità che un figlio sia malato è del 25% a ogni gravidanza (una possibilità su quattro), mentre c'è una probabilità su quattro che il figlio sia perfettamente sano e una su due che sia a sua volta portatore. Se i futuri genitori sono invece uno portatore e l'altro malato, il rischio che un figlio sia affetto da talassemia è più alto, ed è pari al 50%.

"Oggi, in genere, chi è portatore di talassemia lo sa" afferma Claudia Cesaretti. "O perché un genitore era a sua volta portatore e gli ha fatto fare da piccolo gli esami per vedere il suo stato, o perché durante qualche esame del sangue di routine sono emersi elementi, come la microcitemia, che hanno fatto sospettare questa condizione. Il test che può far sorgere il dubbio è l'emocromo, mentre la conferma della diagnosi si ha con un'analisi dettagliata dei frammenti proteici dell'emoglobina, attraverso test chiamati elettroforesi o Hplc".

Capita comunque che, in una coppia, magari solo uno dei partner abbia la certezza di essere portatore. "In questo caso, prima di cercare una gravidanza è bene capire se se l'altro partner è sano o a sua volta portatore" sostiene Cesaretti. "Se lo sono entrambi bisogna anche andare a vedere quali sono le mutazioni di ciascuno dei due, per prevedere quale potrebbe essere la gravità della malattia se un figlio le ereditasse entrambe. Per farlo, basta una semplice esame del DNA dei due partner, a partire da un prelievo di sangue".

Che cosa deve fare una coppia portatrice in vista di una gravidanza?

Per prima cosa, essere consapevole della possibilità che il bimbo sia malato.

In secondo luogo, decidere come comportarsi di fronte a questa possibilità. Alcune coppie decidono di accoglierla serenamente. Altre - in Italia sono la grande maggioranza - ritengono che il carico della malattia sarebbe troppo pesante per il bambino e per la famiglia, e preferiscono effettuare una diagnosi prenatale.

Questo permette, in caso di malattia del feto, di valutare l'ipotesi di interruzione della gravidanza (aborto terapeutico). "Negli anni novanta abbiamo avuto in Italia il minimo storico di nascite di bambini talassemici" afferma Leoni. "Da allora c'è stata una piccola ripresa, perché grazie alla disponibilità di terapie alcuni genitori scelgono di portare avanti comunque la gravidanza".

Se si decide di effettuare diagnosi prenatale, la tecnica d'elezione è la villocentesi. "Può essere fatta prima dell'amniocentesi e permette di raccogliere il materiale più adatto per l'analisi genetica", spiega Cesaretti. Poiché si tratta di una tecnica invasiva, che comporta un rischio seppur minimo di aborto spontaneo, viene consigliata solo alle coppie che hanno intenzione di interrompere la gravidanza in caso di malattia del feto. Se si sa già a priori di voler portare avanti comunque la gravidanza è inutile correre rischi.

Celocentesi: una possibile alternativa alla villocentesi?


Si chiama celocentesi, ed è una nuova tecnica di diagnosi prenatale per malattie genetiche come la talassemia messa a punto dall'équipe del dott. Aurelio Maggio, responsabile del dipartimento di ematologia dell'azienda ospedaliera Villa Sofia - Cervello di Palermo. Che è anche, almeno per ora, l'unico centro italiano in cui è possibile effettuarla.

La tecnica, sviluppata con il supporto fondamentale dell'Associazione Piera Cutino, prevede il prelievo di una piccolissima quantità del liquido presente in un particolare cavità, detta appunto celoma, che si forma all'interno della camera gestazionale nelle prime settimane di gravidanza, per poi lasciare il posto alla cavità amniotica. Il prelievo viene fatto per via transvaginale, sempre con controllo ecografico. "Nel liquido celomatico sono presenti cellule fetali che possono essere analizzate per scoprire se il feto è affetto o meno da una particolare malattie genetica" spiega Maggio.

Il grande vantaggio rispetto alla villocentesi consiste nel fatto che il prelievo può essere fatto prima, tra le sette e le nove settimane, perché poi la cavità celomatica scompare. "Significa quasi un mese prima rispetto alla villocentesi, in pratica un paio di settimane dopo aver scoperto di essere incinte". Un vantaggio temporale notevole se si pensa di interrompere la gravidanza in caso di malattia del feto.

Negli ultimi 7-8 anni, il gruppo del dott. Maggio ha eseguito diverse centinaia di celocentesi. Come è stato raccontato in dettaglio in un articolo scientifico pubblicato sulla rivista Praenatal Diagnosis, la tecnica si è rivelata molto affidabile nell'identificazione di emoglobinopatie. Da sottolineare, però, che si tratta di una tecnica invasiva, per cui ci può essere rischio di perdita fetale. Secondo uno studio pubblicato nel 2002 dal greco George Makrydimas, uno dei papà della celocentesi, il rischio di aborto associato sarebbe del due per cento. "I nostri ultimi dati - sostiene Maggio - parlano invece di un rischio più basso, intorno all'uno per cento".

Questa nuova tecnica si è finora concentrata soprattutto su singoli difetti genetici, come sono appunti quelli alla base di talassemia o altre emoglobinopatie. Secondo alcuni recenti risultati, però, potrebbe anche essere in grado di offrire indicazioni su anomalie cromosomiche come la sindrome di Down, offrendo una visione d'insieme dei cromosomi del feto. Una prospettiva di applicazione alla quale sta lavorando il gruppo del Prof. Maggio, in collaborazione con altri centri di ricerca.

La scelta di cosa fare di fronte alla possibilità di un feto malato non è semplice, è molto individuale, e dipende da vari fattori che hanno a che fare con fedi religiose, sistemi di valori, e altro ancora. Proprio perché si tratta di una scelta complessa, sarebbe bene porsi il problema ancora prima che la gravidanza inizi, per non venire colti di sorpresa e non dover prendere di corsa decisioni impegnative. In questo percorso di consapevolezza è fondamentale la consulenza di un genetista esperto e può essere importante confrontarsi con medici che si occupino quotidianamente di talassamie e con associazioni di pazienti.

La diagnosi preimpianto

Per le coppie portatrici che non vogliono correre né il rischio di avere un figlio malato né quello di dover interrompere una gravidanza, c'è un'altra possibilità: la diagnosi embrionale preimpianto.

Per percorrere questa strada, però, bisogna passare attraverso una procedura di riproduzione assistita: in questo modo si possono ottenere, in provetta, embrioni da sottoporre ad analisi, per trasferire in utero solo quelli sani o, al massimo, portatori.

"Così si evita il rischio di aborto terapeutico, ma va precisato che è una procedura lunga - possono volerci diversi mesi prima di arrivare all'impianto - che richiede una serie di esami e una stimolazione ormonale per la donna, e che non dà garanzie di riuscita, nel senso che l'impianto può non avvenire o la gravidanza può interrompersi precocemente" spiega Cesaretti. Inoltre, va sottolineato che la diagnosi dell'embrione non è una tecnica perfetta: si stima che possano esserci errori nel 3% dei casi. Per questo, alle coppie che la effettuano si consiglia comunque di fare anche una diagnosi prenatale invasiva per essere certi che il feto sia sano.

Altre fonti utilizzate per l'articolo: materiale informativo dell'Osservatorio Malattie Rare (OMaR); materiale informativo dell'Istituto Superiore di Sanità (ISS); materiale informativo dell'Osservatorio Terapia Avanzate (OTA).

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Revisionato da Francesca De Ruvo - Aggiornato il 29.11.2021

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