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Perché il bambino picchia gli altri? Dritte ai genitori

di Marzia Rubega - 21.11.2014 - Scrivici

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Fonte: Shutterstock
Perché mio figlio picchia gli altri bambini? Questa domanda se la pongono soprattutto le mamme dei maschi che spesso si trovano di fronte a ‘piccole risse’. E al dubbio: meglio lasciare che se la vedano da soli oppure è giusto intervenire?

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Durante la giornata, a scuola dell'infanzia e alla primaria, al parco o a casa, durante una merenda, scontri, spintoni ed episodi più aggressivi (inclusa qualche 'manata') esplodono spesso tra bimbi. I toni si fanno più alti e sembrano quasi minacciosi agli occhi di un adulto ma, come dopo un temporale estivo, l'atmosfera ben presto torna serena.

Questo accade perché i litigi tra bambini, botte comprese, sono una normale tappa della crescita. La componente aggressiva (che spesso preoccupa la famiglia) fa parte del comportamento sociale e della relazione che hanno tra di loro.


Quando il genitore si domanda, con una certa angoscia, come mai (e se è 'normale') che il figlio picchi gli altri, in realtà, si sta ponendo un interrogativo sbagliato. “E' indispensabile spostarci dall'idea di 'picchiare' considerando che il bimbo interagisce sempre in modo spontaneo”.

A sostenerlo è Daniele Novara, pedagogista, fondatore del Centro psicopedagogico per l'educazione e la gestione dei conflitti, docente universitario e autore di oltre 35 saggi - tra cui il bestseller Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, Rizzoli.

Fino a sei-sette anni, poi non c'è l’intenzionalità di fare male (“rancore e violenza non esistono,” dice Novara) e infatti se lo scontro viene gestito direttamente tra bambini, in genere, dura pochissimo. Dopo quella età si raggiunge una certa consapevolezza, dice Novara, ma anche nella fascia 6-10 anni i comportamenti pericolosi rappresentano un’eccezione.

Come si dovrebbe comportare il genitore di fronte a questi comportamenti del bambino? Secondo Novara, la via maestra è quella di non colpevolizzarlo "un atteggiamento che davvero non porta a nulla", evitando di intromettersi, per favorire la sua capacità di risolvere 'da solo' i conflitti.

Visione più interventista quella invece di Alberto Pellai, medico psicologo psicoterapeuta, autore di numerosi saggi e libri per genitori (tra cui, sul tema, Il bullo Citrullo.

.. e altre storie di tipi un po' così e un po' cosà, Erickson). Anche se è scorretto colpevolizzare il bambino, è importante fargli capire che “non va bene trattare male gli altri”. In ogni caso, secondo lo psicologo, il bimbo deve sentire che l'adulto è suo alleato ed è pronto ad aiutarlo se lui lo chiede perché non riesce a gestire la situazione. Ma vediamo meglio che cosa suggeriscono i due esperti.


Mamma e papà spesso giudicano i comportamenti dei bambini con un punto di vista da adulto. Sbagliato!

Di frequente, il genitore applica un metro di valutazione basato su una visione 'adultocentrica' (che pone al centro sé stesso) verso i comportamenti del bambino. Ma questo non è corretto.

“Il termine picchiare introduce già un giudizio verso il bambino, una considerazione paleocriminale, che non tiene conto del fatto che è un soggetto in crescita, animato dal desiderio di imparare,” dice il pedagogista. “Questo lo porta anche a manifestare un tasso di nervosismo elevato perché non controlla ancora bene parole e movimenti”.

Insomma, bisogna tenere conto che il bambino sta imparando a relazionarsi con gli altri e all’inizio fa fatica, ma non vuol dire per questo che abbia intenzioni violente. Per esempio, dà una spinta al compagno perché vuole salire sullo scivolo per primo ed è mosso solo dal desiderio di giocare.


I bambini manifestano infatti in modo immediato quello che sentono, vivono le emozioni allo stato puro, in modo spontaneo e senza filtri. “Noi adulti non diciamo alla suocera o al vicino di casa che non li sopportiamo, i bambini invece esprimono tutto direttamente,” osserva Novara.

I litigi (a volte, le botte) tra bambini sono episodi fisiologici, connaturati alla natura stessa del gioco

Studi evidenziano che il bimbo in età prescolare se lasciato solo con i compagni, mette insieme 50 litigi orari e, in presenza di un educatore, arriva a 12. “Questo accade perché il litigio è connaturato al gioco, al contatto fisico ed è fisiologico – dice Novara -. Se un gruppo di bambini, per esempio, gioca con la sabbia, dopo 3-4-5 minuti, scatta qualcosa, una competizione a cui l'altro si oppone”.

Ma i bambini, se lasciati stare, spesso hanno grandi capacità di trovare un accordo con gli altri compagni per fare in modo che il gioco prosegua. “Il bimbo è ‘opportunista’ e quello che gli interessa davvero è continuare a giocare, non essere escluso”, spiega Novara.

Quando un bimbo picchia un coetaneo, è dunque fondamentale non colpevolizzarlo e non intromettersi subito con atteggiamento da giudice per stabilire 'come, dove e perché' è nato il litigio.

“Cercare di correggere questi comportamenti porta a risultati disastrosi incuneando sensi di colpa”, sostiene Novara. Se il bambino vuole un giocattolo, per esempio, cerca di prenderlo e basta. E se un compagno lo ostacola in un gioco, può venirgli in mente di dare uno spintone.

I bambini di ieri e i bambini di oggi. Che cosa è cambiato

Due bambini al parco. Ad un certo punto inizia un litigio e uno dei due dà una sberla all’altro. Scena tipica oggi come ieri. Quello che è cambiato è quello che accade dopo. Un tempo, i bambini avevano timore degli adulti e temevano di ‘prenderle’ per un litigio tra di loro. Quindi, lo nascondevano e non chiedevano l'intervento del genitore. Così si regolavano tra loro, sviluppando le competenze per affrontare in modo efficace i conflitti. Ovvero: “Se picchio gli altri, loro mi escludono dal gioco. Allora smetto di picchiarli così mi fanno giocare con loro”.

Oggi non è più così. I bambini non hanno paura di mostrare agli adulti la loro istintualità ma i genitori sono spesso troppo interventisti, impedendo così ai bambini di autoregolarsi, sostiene Novara. Dunque, vietato al genitore 'mettersi in mezzo' e fare il giudice di fronte a ogni scontro tra il figlio e gli amici, ingigantendo, tra l'altro, il reale peso dell'evento.

Unica concessione: il genitore (e l'educatore) può aiutare il bambino a gestire questi episodi attraverso un approccio non invasivo che favorisce la sua capacità di risolvere 'da solo' i conflitti.

Come? Novara suggerisce il suo metodo ‘Litigare bene’, che consiste in due passi indietro e due passi avanti.

IL METODO MAIEUTICO ‘LITIGARE BENE’
L'obiettivo prioritario di genitori ed educatori resta quello di sostenere i bimbi senza influenzare i loro processi di autoregolazione. Proprio da queste premesse, il pedagogista ha ideato il metodo 'Litigare bene' - noto a livello internazionale. Il metodo consiste in due passi indietro e due passi avanti.
1) Il primo passo indietro è quello di rinunciare alla ricerca di un presunto colpevole ('Chi è stato?', Come è cominciato?' sono domande da evitare perché non portano a nulla).
2) Il secondo passo indietro prevede di non imporre una soluzione con un atteggiamento interventista (smettila!', 'giocate senza litigare!') che non 'entra' nel cuore della relazione tra bimbi.
3) Il primo passo avanti è quello di invitare il bimbo a dire la sua su quanto accaduto. A casa, sarebbe utile, secondo il pedagogista, creare un angolo apposito per farlo, il 'tappetone dei bisticci' (il 'compli corner'), dove il genitore accompagna il figlio per farlo parlare del litigio. Una buona pratica è anche quella di proporre al bimbo di scrivere o disegnare su un foglio la sua versione dei fatti. Naturalmente, questo metodo (già molto usato tra genitori e scuole) deve essere condiviso in famiglia, da mamma e papà, altrimenti non funziona.
4) Infine, il secondo passo avanti è aiutare i bambini a trovare un accordo tra loro che si può anche mettere in una scatola (o fermare con un mollettone). Se ognuno ha espresso le sue ragioni, all'adulto 'neutrale' spetta il compito di mostrare come siano tutte legittime.
Con questo sistema, anche il genitore dovrebbe imparare una lezione importante: “Ogni bambino vuole solo giocare e non ha senso pretendere, per esempio, che a cinque anni abbia il senso di giustizia. E neanche chiedergli di essere 'corretto' è utile... Insomma, non c'è possibilità di creare elucubrazioni con i bambini”, conclude Novara.

Gli episodi si ripetono troppo spesso? Bisogna incentivare la capacità di autogestirsi

Non bisogna colpevolizzare il bambino che picchia, sostiene anche Pellai. Però, la capacità di autogestione del bambino può/deve essere incentivata.

Prendiamo il caso di un bambino che in classe picchia regolarmente i compagni. Per aiutarlo a smettere, si potrebbe chiedere un colloquio con le maestre e davanti a lui definire un ‘patto'. “Guadagnerai uno smile oppure cinque punti da mettere su una tabella, per ogni giorno in cui non hai fatto male ai tuoi compagni. Ogni giorno chiederò alle maestre come ti sei comportato”.

“In questo modo il bambino riceverà una motivazione positiva che favorisce la sua capacità di autogestirsi”, dice Pellai. Anche a casa, nulla vieta di adottare un sistema analogo se il genitore ritiene che i litigi tra fratelli, per esempio, o al parco, tendano a essere un po' troppo 'maneschi'.

Un'altra tattica suggerita da Pellai: “Se il bimbo esprime la sua rabbia 'in modo poco evoluto', di fronte al fatto concreto, la mamma può chiedergli di ripetere come sono andate le cose, prendendo la mano che ha usato per picchiare un altro e guardandola insieme”.

“E' importante far sentire che dentro le mani c'è molta potenza ma è possibile scegliere di usarle per le carezze, invece di picchiare”, dice il medico psicoterapeuta.

Quando un bimbo picchia un compagno, dunque, il genitore dovrebbe aiutarlo a capire che non si può permettere di trattare male gli altri. Sarebbe utile, secondo Pellai, anche invitarlo a chiedere scusa in modo concreto, preparando, per esempio, un dolce per il compagno.


Infine, di fronte agli episodi più gravi, secondo Pellai, l'adulto può svolgere un'azione di 'contenimento' forte. “Se al parco, per esempio, il bimbo non smette di picchiare, il genitore dovrebbe dirgli, 'allora andiamo a casa!' - dice il medico psicologo. E, in alcuni casi, è possibile valutare l'applicazione di una sanzione (intesa come perdita di un privilegio) come conseguenza diretta dell'accaduto. “Stasera non guardi la tv”.

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Aggiornato il 26.11.2018

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