Adolescenti oppositivi
Chi è genitore o è spesso a contatto con ragazzi adolescenti, si aspetta un atteggiamento oppositivo da parte loro. Eppure sempre più spesso gli adulti si trovano spiazzati di fronte a ragazzi e ragazze che non sfidano apertamente e non si ribellano all'autorità. Vuol dire che non esistono più adolescenti oppositivi? No, solo che l'oppositività oggi si manifesta in passività, rifiuto a collaborare a un progetto comune, mancata voglia di immaginare un futuro in cui essere responsabili. Gianluca Daffi ci spiega come si sta evolvendo l'adolescenza e come attivare gli adolescenti "oppositivi" di oggi.
Essere oppositivi è necessario
«Il mondo adulto e l'adolescenza - esordisce l'esperto - sono da sempre in conflitto e questo non è un male di per sé: i giovani spesso definiscono la propria identità per contrapposizione con quella delle figure adulte». A questo però contribuisce anche un'errata interpretazione del ruolo educativo degli adulti, che spesso si vedono come controllori e domatori: «Siamo ancora legati al modello dei giudici da reality show, che sanzionano, condannano e si impongono con autorità. Chi cerca di mediare, nella società adulta, non ha successo: è certamente anche a questa deriva che gli adolescenti si ribellano». La necessità di opporsi per crescere però sta iniziando a venir meno. Perché?
Adolescenti passivi: perché
Gli adolescenti di oggi non sono più così provocatori, non cercano lo scontro aperto con le figure adulte. Un dato di fatto osservato da tutti i soggetti che si occupano di minori, ma ancora difficile da decifrare: «Da un lato i ragazzi e le ragazze si trovano di fronte sempre più frequentemente adulti che si sottraggono al conflitto, che faticano a sostenerlo; dall'altro però sono loro stessi a rivolgersi sempre meno alle generazioni più anziane per avere un confronto».
La società adulta certamente li considera sempre meno, ma anche loro cercano gli spazi per emergere avendo come riferimento i coetanei e non una collettività che prevede scambi intergenerazionali: non sono più interessati, insomma, a entrare in conflitto con un genitore o un professore.
Adolescente sfidante vs adolescente passivo: le differenze
Gli adolescenti di oggi stanno dunque crescendo «indipendentemente dalle generazioni precedenti, senza l'aiuto di un adulto di riferimento cui opporsi». Ma anche chi non riesce a evolvere da solo, non risponde alle sollecitazioni degli adulti: «Questo un po' perché gli adulti sono fermi all'idea di adolescente che c'era 20 anni fa e, non comprendendo i giovani d'oggi, fanno loro proposte senza significato. I teenager con un atteggiamento passivo però sembrano non riconoscere l'esistenza di un altro, pensano di poter crescere a prescindere da tutto e tutti. Per loro non è importante stare all'interno di una società, conta solo il confronto con il gruppo dei pari e la capacità di emergere con ogni mezzo al suo interno».
Come coinvolgere un adolescente passivo
Qualche strumento e strategia per attivare gli adolescenti "oppositivi" di oggi.
- Parlate con loro. Gli adulti di oggi devono dimenticare le proprie idee sull'adolescenza e tornare ad essere curiosi: «Per capire chi sono dobbiamo metterci in ascolto e conoscere le culture in cui sono immersi, i loro interessi, i loro passatempi».
- Personalizzate l'approccio. Ogni ragazzo è a sé e una sola modalità di azione non può funzionare per tutti: «È possibile includere sia chi ha un atteggiamento più sfidante sia chi è più passivo, ma le modalità e i tempi di coinvolgimento sono diversi».
- Progettate CON loro. Non attivate progetti sui ragazzi, ma con i ragazzi. «L'apatia o passività è una reazione uguale e contraria al desiderio di protagonismo esistente in tutti i giovani: se invece di trattarli come destinatari di una proposta li mettete al centro come soggetti e attori, scardinate questo meccanismo».
- Fate squadra. Si parla sempre di alleanza educativa ma poi i soggetti in gioco attorno agli adolescenti (insegnanti, allenatori, educatori e genitori) si parlano molto raramente. «È proprio difficile coinvolgere il soggetto al centro, se non lo conosciamo e se non mettiamo insieme le informazioni per conoscerlo. Ricordiamoci che la resilienza, di cui tanto si dice, non è una caratteristica personale ma ambientale e di contesto: dipende da quanto tiene la rete sociale attorno a una persona. Nessuno ce la fa da solo».
L'intervistato
Gianluca Daffi (www.gianlucadaffi.it) è laureato in Psicologia e docente presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Brescia. È collaboratore del Centro Studi Erickson di Trento e del Servizio di neuropsichiatria infantile degli Spedali Civili di Brescia. È autore di numerose pubblicazioni sul tema di ADHD e della gestione degli alunni con BES.