Home Adolescenza

Blackout challange, il "gioco" del soffocamento che è tornato di moda

di Alice Dutto - 21.01.2021 - Scrivici

blackout-challange
Fonte: shutterstock
Il blackout challange è una pratica non nuova e che ha riconquistato popolarità tra i giovani anche grazie ai video tutorial su internet (e ultimamente su TikTok). Ecco cosa possono fare i genitori per proteggere i loro figli

In questo articolo

Si chiama "blackout challange" ma è conosciuto anche come "blackout game", "choking game", "passing out", "fainting game", "space monkey", "black hole", "flatline game", "gasp game", e in decine di altri modi.

In italiano si traduce come "gioco dello svenimento" o "sfida dello sfinimento" e consiste nel soffocarsi per poco tempo per provare il proprio coraggio, ma anche la sensazione di euforia da asfissia.

Dopo qualche tempo di mancanza di ossigeno, infatti, la mente raggiunge uno stato confusionale dovuto all'eccessiva concentrazione di anidride carbonica nel sangue (ipercapnia), il cui esito può essere uno svenimento o la formazione di "visioni", causate da un rallentamento dell'attività cerebrale.

Oggi l'ultimo caso in Italia

E proprio oggi se ne torna a parlare proprio in Italia. Una bambina di 10 anni si è legata la cintura alla gola per partecipare su TikTok, uno dei social più seguiti dagli adolescenti, proprio a questa sfida. La sfida si è però trasformata in una tragedia.

La bambina non ce l'ha fatta: è in morte cerebrale. Era stata ricoverata in rianimazione all'ospedale "di Cristina" di Palermo, portata dai genitori, in arresto cardiocircolatorio dovuto a un'asfissia prolungata. Il suo cuore si sarebbe fermato per alcuni minuti prima di ricominciare a battere.  
   


Una pratica conosciuta da tempo

Non si tratta di una novità, ma di una pratica diffusa da anni: uno dei primi casi noti in Italia è stato quello del convitto della scuola professionale provinciale alberghiera e alimentare «Emma Hellenstainer» a Bressanone, nel 2010, in cui il gioco era dilagato tra gli studenti, tanto che la direzione era stata costretta ad avvisare i genitori con una lettera.

Un altro episodio che si era concluso in tragedia risale invece al 6 settembre 2018, quando Igor Maj, 14 anni di Milano, era morto soffocato da una corda. Sulla cronologia del suo computer c'era il video: «Cinque sfide pericolosissime per sballarsi senza droga» e una di queste mostrava proprio il chocking game.

I dati

Risale al 2008 uno degli studi più noti sull'argomento, redatto dal CDC, Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, negli Stati Uniti, sulla base delle notizie riportate sui media locali e nazionali.

Tra il 1995 e il 2007 le vittime del blackout game sarebbero state 82, la cui età media era di appena 13 anni. Anche se non esiste un profilo comune, c'è un filo rosso che avvicina queste morti: la solitudine. Il 95,7% degli incidenti è avvenuto mentre le vittime erano da sole.

Di settembre 2018 è invece il sondaggio di Skuola.net effettuato su circa mille studenti di scuole medie e superiori: più di uno su 10 era a conoscenza del fenomeno e delle sue regole. Il 28% l'ha scoperto sul web; il 23% da video postati sui social; e il 20% tramite amici.

Dei ragazzi che sapevano di che cosa si stesse parlando, il 18% (quasi uno su 5) avrebbe provato direttamente la pratica, mentre uno su tre (quindi il 33%) avrebbe un amico che l'ha fatto. Il 68% era da solo, mentre il 32% ha voluto qualcuno accanto.

La motivazione principale, indicata dal 56% dei ragazzi che hanno provato il blackout game, era la voglia di fare un video da mettere online, con la speranza che diventasse virale.

L'analisi

Il blackout game, così come il fenomeno della Blue Whale, di cui ancora oggi è difficile stimare la veridicità e il reale impatto sui giovani, o quello di Jonathan Galindo, ha colpito profondamente gli adulti.

In realtà, si tratta di fenomeni che sono sempre accaduti: «La differenza – spiega spiega Matteo Lancini, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro – è che una volta si svolgevano nella vita reale, oggi invece avvengono attraverso la rete».

«In ogni epoca, durante l'adolescenza, i ragazzi cercano esperienze vicine alla morte e non lo fanno, come affermano molti, per un senso di onnipotenza, cioè credendo di poter sopravvivere.

Al contrario, lo fanno per un senso di fragilità, perché devono confrontarsi con il limite ultimo: il termine della vita».

Per sopportare questa conoscenza rispondono in modi diversi: «alcuni vanno alla ricerca di esperienze esagerate, che gli consentano di guardare in faccia la morte e così superarla».

Altri invece sono più spinti dalla ricerca della popolarità a tutti i costi: «Una ricerca che trova un ottimo canale in internet e che si inserisce in una fragilità generazionale: è facile che gli adolescenti si ritengano brutti, impopolari, non abbastanza di successo. Così, per guadagnare consenso, fanno questo tipo di esperienze, pensando che forse è meglio morire ma essere popolari piuttosto che trasparenti. E in questo senso, vale tutto, dalla Balena Blu al selfie estremo, all'aggressione degli insegnanti o il chocking game. Basta che tutto sia a favore di telecamera, a favore di like».

Una popolarità che viene ancora più cercata in un momento in cui il Covid-19 ha, ovviamente, amplificato tutto: il lockdown ha chiuso bambini e adolescenti in casa, la didattica a distanza li ha separati dai loro amici. 

Cosa possono fare i genitori

«Non possiamo pensare di proteggere i nostri figli facendogli usare meno la rete. L'unico modo per evitare che accadano tragedie di questo tipo è quello di non lasciare soli i nostri figli e interessarci, attraverso il dialogo, a ciò che fanno nella loro vita virtuale. Questo non significa che i ragazzi risponderanno subito, ma vuol dire aprire un canale di comunicazione segnalando ai propri figli che si è a disposizione per loro e che non li lasciamo da soli, anche in rete».

E poi i genitori non dovrebbero avere paura di affrontare tematiche difficili, considerate "tabù". «Nella nostra società è difficile che si parli di morte, tantomeno con i propri figli.

Magari si ha addirittura paura di affrontare questi argomenti perché si ha il timore di istigarli al suicidio. Invece, chiedere al proprio ragazzo se è triste, depresso, e se ha dei pensieri di morte significa instaurare un dialogo e far capire che siamo lì per lui, per sostenerlo e non lasciarlo da solo».

Per quanto riguarda la società, poi, più che lo sviluppo di software di controllo dei comportamenti dei ragazzi su internet, «Sarebbe necessaria una "patente digitale", che è importante non per il patentino in sé, ma per il percorso che porta il ragazzo a prenderlo. Per ottenerlo, infatti, ci sarà bisogno che il ragazzo frequenti un corso dove potrà imparare delle cose e sapere che ci sono delle figure di riferimento che si interessano della sua vita in rete a cui potersi anche rivolgere in caso di necessità».

Revisionato da Luisa Perego

TI POTREBBE INTERESSARE

ultimi articoli