La camera da letto di un ragazzo che entra nell'adolescenza è molto di più del posto in cui dorme o in cui passa i pomeriggi a giocare o a fare i compiti. Rappresenta il suo rifugio, dove comincia a definire la propria individualità. «In questa fase della vita inizia il processo di identificazione, durante il quale i ragazzi costruiscono la propria identità e per farlo, inevitabilmente, hanno bisogno dei propri spazi» spiega il filosofo e psicoterapetua Antonio Piotti che insieme a Roberta Spiniello e Davide Comazzi ha scritto il libro “Il corpo in una stanza. Adolescenti ritirati che vivono di computer” (Franco Angeli editore).
Proprio la cameretta in questi anni assume un ruolo fondamentale. «Le porte cominciano a chiudersi perché i ragazzi iniziano a sviluppare un normale bisogno di riservatezza che li porta a sentire il bisogno di una giusta distanza tra il loro mondo e quello degli adulti». L'importante, secondo lo psicoterapeuta, è che in questo 'muro' immaginario, fisiologico e da non drammatizzare, sia presente un ponte levatoio che consenta ai genitori di mantenere un punto di contatto con i propri figli.
Scoprire con discrezione il loro mondo
Durante l'adolescenza i genitori devono essere bravi a non far crescere un divario troppo ampio tra loro e i propri figli: il distacco rispetto all'infanzia è inevitabile ma è necessario mantenere un dialogo aperto per riuscire a scoprire quel mondo che gli adolescenti hanno un naturale desiderio di tenere nascosto. Per il dottor Piotti «questo non significa cadere nell'errore di essere invadenti e pressanti con i ragazzi ma semplicemente farsi vedere interessati a quello che fanno quando la porta della loro camera è chiusa».
La ricerca del giusto equilibrio tra i due aspetti è delicata perché, secondo lo specialista, bisogna riuscire ad aprire un varco mantenendo il proprio ruolo di genitori senza cadere nella tentazione di voler fare gli amici del proprio figlio.
«In molti commettono anche un altro errore: credono che quando i ragazzi sono all'interno delle proprie camere, tutto sommato, sono al sicuro dai rischi del mondo esterno. Questo atteggiamento è sbagliato, anche perché la rete, seppur non vada criminalizzata, concede una possibilità sterminata di relazioni, anche poco sicure». Motivo per il quale, secondo il dottor Piotti, si deve mantenere una vigilanza attiva (attraverso il dialogo, che non dovrebbe sfociare in "spionaggio") e incentivare i propri figli ad uscire all'aria aperta e coltivare le vecchie sane amicizie 'reali' e non virtuali.
Quando diventa patologico
In alcuni casi, però, quella famosa porta chiusa può rappresentare una spia di allarme che nasconde un malessere. Erroneamente molti genitori credono che il motivo per il quale i propri figli rimangano chiusi in camere tante ore siano i videogiochi o la voglia di stare al computer, in realtà l'utilizzo di questi strumenti è solo una conseguenza. «Quando un adolescente arriva a passare moltissimo tempo nella propria stanza rifiutando la gran parte delle occasioni sociali - spiega il dottor Piotti - lo fa principalmente per un senso di inadeguatezza che lo spinge a rifiutare il palcoscenico sociale. In questi casi i videogiochi e il computer rappresentano un passatempo ideale ma non il reale motivo dell’isolamento».
I primi a studiarlo sono stati i giapponesi
Nel libro “Il corpo in una stanza. Adolescenti ritirati che vivono di computer” i tre autori partono dallo studio del ritiro sociale in età adolescenziale. Il primo Paese in cui questo fenomeno ha fatto la sua comparsa in maniera importante è il Giappone. «Si è cominciato ad approfondire il tema circa 15 anni fa quando ci si è resi conto che tantissimi giovani giapponesi, circa 500 mila, preferivano ritirarsi nella loro camere ed affidare le loro poche relazioni alla rete» racconta il dottor Piotti. Il fenomeno negli ultimi anni ha preso piede anche in Occidente, Italia compresa, anche se è ancora poco studiato.
«Molti di questi giovani adulti rinunciavano del tutto alla socializzazione su internet limitandosi a utilizzare il proprio tempo giocando sulle varie console a “spara tutto” o a giochi di ruolo ». Molti studiosi credevano che certi comportamenti fossero giustificati dalla cultura giapponese, invece, con il tempo ci si è resi conto che questo fenomeno si è velocemente diffuso a macchia d’olio presentando gli stessi “sintomi” in giro per il mondo.
Difficoltà ad esporre il proprio corpo
Secondo il dottor Piotti tra i motivi principali che spingono un adolescente al ritiro sociale c’è indubbiamente la difficoltà ad esporre il proprio corpo in pubblico. «I nostri ragazzi soffrono di una vergogna psichica profonda che è stata accentuata dai tempi in cui viviamo».
L’adolescenza, con i suoi stravolgimenti fisici, è sempre stata ragione di turbamento anche nelle generazioni precedenti ma certi comportamenti sono stati accentuati da una cultura sempre più narcisistica. «I ragazzi si misurano con modelli troppo esigenti - continua lo psicoterapeuta - e maturano sempre più una sensazione di inadeguatezza che li porta a rifiutare il confronto sociale e quindi a ritirarsi». Nella ricerche emerge che a livello patologico il fenomeno è più accentuato nei maschi mentre nelle femmine questa sensazione generalmente si manifesta con i disturbi del comportamento alimentare.
Gli adolescenti oggi: chi sono
Le spie d’allarme
Uno dei fattori scatenanti del ritiro sociale, secondo il dottor Piotti, è la difficoltà dei giovani, una volta entrati nell’adolescenza, di affrontare situazioni che non si è pronti a gestire. «Molti ragazzi – spiega il dottore – arrivano da un’infanzia piena di privilegi nella quale si sono trovati al centro dell’attenzione, per questa ragione quando entrano in un gruppo fanno difficoltà». Così spesso reagiscono con il tentativo di eludere tutte le potenziali occasioni di fallimento sociale o di possibile derisione, soprattutto quando i mutamenti del proprio corpo vengono vissuti negativamente. «I sintomi ai quali bisogna fare attenzioni si manifestano innanzitutto con il rifiuto per la scuola, il teatro sociale per eccellenza».
Ansia, attacchi di panico, cefalee, disturbi somatici sono i primi campanelli d’allarme di un malessere profondo.
Cosa fare?
«Alcune situazioni, se non prese per tempo possono risultare molto difficili: per questo è consigliato rivolgersi a uno specialista per agire nel modo giusto» chiarisce il dottor Piotti. In generale, secondo lo psicanalista, i genitori devono mantenere un dialogo sincero con i propri figli improntato all’ascolto. «Per farlo non esistono situazioni migliori di altre: in questi casi possono aiutare contesti differenti da quelli abituali, come vacanze o piccoli viaggi. Situazioni in cui il ragazzo si possa sentire tranquillo e non osservato. Sotto questo punto di vista sapere di non poter esser riconosciuto è rassicurante». Dialogare quindi, ascoltare le esigenze profonde del proprio figlio e sforzarsi, come genitori, di trovare spazi alternativi, di modificare la routine per trovare delle vie d'uscita.
L’atteggiamento però non deve essere troppo protettivo, ma neanche eccessivamente di condanna. Il rischio è spingere l’adolescente a tagliare i ponti anche con i genitori, un’eventualità assolutamente da scongiurare. Anche perché, secondo il dottore «nella fase iniziale sono proprio quest'ultimi ad aver bisogno di confrontarsi con uno specialista. C'è la necessità, infatti, di analizzare il tipo di relazione che intercorre con il figlio per modulare al meglio i comportamenti e preparare il terreno a una successiva terapia».