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7 bugie che sono state dette ai genitori: sfatiamole

di Zelia Pastore - 03.05.2019 - Scrivici

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Fonte: Pixabay
I bambini devono ascoltare i genitori, che devono rivolgersi a loro come se fossero in grado di comprendere qualsiasi concetto astratto; i piccoli vanno intrattenuti costantemente dagli adulti e soprattutto bisogna stare sempre tutti vicini vicini. Facciamoci aiutare dal pedagogista Daniele Novara a sfatare questi miti educativi

In questo articolo

Essere genitori oggi è un compito emozionante ma a tratti ingrato: questo perché madri e padri “moderni” si trovano, spesso senza rendersene conto, bersagliati di prescrizioni impossibili da seguire. Nel tentativo di adeguarsi si affaticano inutilmente, perdono naturalezza nel rapporto con i figli e soprattutto non fanno le mosse giuste e quindi il bene dei figli.

Una generazione di genitori “fragili”

Prima di elencare le “bugie” di cui madri e padri sono attualmente vittime, inquadriamo brevemente la loro situazione. I genitori di oggi sono più presenti nella vita dei loro bambini rispetto a quello che hanno fatto i loro genitori, ma il paradosso è che li educano meno, come ha ricordato Daniele Novara (il fondatore del CPP – Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti) in una recente intervista.

Il problema, spiega il pedagogista (di cui l'ultimo è “Cambiare la scuola si può”) è che «tra gli anni '70 e '80 c'è stata una mutazione antropologica che ci ha traghettati da una società che si riconosceva nel valore della comunità a una società in cui il narcisismo non è più una patologia ma un modo di essere, nella quale i valori dell'individuo prevalgono su quelli della collettività. E i bambini, via via, sono diventati beni sempre più preziosi, unici, amati e accuditi, travolti dall'enorme investimento narcisistico dei loro genitori».

Questi genitori “fragili” cadono quindi più facilmente vittime di alcune bugie sull’educazione, che vediamo di sfatare nei paragrafi che seguono.

1. Il “mito dell’ascolto”

«Spesso i genitori mi dicono “Non mi ascolta, deve ascoltarmi!”. Ma bisogna tenere presente che il bambino fa fatica ad ascoltare come lo intendiamo noi (“vedo che hai le orecchie aperte ma non interiorizzi” è un’altra frase che sento dire spesso). Una delle questioni più complicate in cui sono incappati i genitori negli ultimi 30 anni è questo tema dell’ascolto».

Non si può più minacciare o spaventare il bambino con il lupo cattivo o la strega: «le minacce, giustamente, non appartengono alle famiglie moderne, definite anche “affettive” e con le componenti narcisistiche che abbiamo evidenziato prima.

Come alternativa, si è fatta strada l’idea che si deve parlare ai bambini, che dovrebbero quindi ascoltare».

Ma entrambe queste opzioni (minacce e spiegazioni) non tengono conto che il cervello dei bambini è di tipo sensoriale e pratico, «come ci spiegava già Maria Montessori: per “intercettare” le loro capacità di comprensione non ci si deve dilungare in spiegazioni filosofiche ma bisogna essere concreti, mettere il bambino dentro la situazione e creare le condizioni per fargli fare le cose da solo».

Il genitore di oggi è stato spinto a pensare che il bambino sia un piccolo filosofo, in grado di ascoltare, di diventare consapevole. «Ma si tratta di prescrizioni impossibili, che generano confusione nella mente dei piccoli che non sono in grado di comprendere concetti troppo astratti e grande frustrazione nei genitori perché non vengono ascoltati».

2. «Parlategli come se fossero adulti»

Una declinazione di questo mito del dialogo a tutti i costi è il parlare ai bambini come se fossero capaci di comprendere come degli adulti.

«Un figlio di 3 anni non può capire le ragioni per cui al supermercato i genitori non acquistano un dolce che lui desidera tanto. Mi capita di assistere a conversazioni di questo tenore: “Non te lo comperiamo perché dentro ci sono coloranti e conservanti, i tuoi genitori sono contro lo spreco e non abbiamo bisogno di altre merendine in casa. Stiamo cercando di educarti nel modo migliore, e ricordati che in questo momento l’Italia è in recessione”. Immaginatevi che cosa può comprendere di tutto questo discorso un bambino».

La domanda della svolta



La domanda giusta quindi non è come devo spiegare le cose ma come devo organizzarmi per fare in modo che lui capisca?

«Se vogliamo che il piccolo si vesta da solo e che vada a scuola dopo aver fatto una buona colazione, prepariamo insieme a lui i vestiti da mettere sulla sedia la sera prima, apparecchiamo insieme il tavolo con delle belle tovagliette, in sostanza lasciamo delle tracce concrete che possano raggiungerlo sul piano sensoriale, non sul piano “mentale”».

Almeno fino ai nove anni i bambini sono dentro all’infanzia in senso profondo, «credono a Babbo Natale e sono immersi nel pensiero magico: se vogliono ottenere dei risultati, i genitori devono comunicare con loro con comunicazioni semplici ed educative, non psicologiche».

Un esempio?
«Fuori piove, mettiamo gli stivaletti». Cinque parole e gli stivaletti e l’ombrellino pronti davanti alla porta.

3. «Bisogna giocare con i figli»

«Il buon papà è quello che si mette a giocare con i suoi bambini: questa generazione di genitori ne ha fatto un cavallo di battaglia. Questo pensiero è sempre una conseguenza della mutazione antropologica di cui parlavo prima, ovvero da una società che era costruita sul sapere di una comunità, da una società quindi basata sul “noi” si è passati ad una basata sull’io” e sul fai da te.

Il bene dei figli è di giocare con i loro coetanei, con altri bambini, non con gli adulti. Il buon papà quindi deve fare lo sforzo di assumere un ruolo di regia, non mettersi alla pari».

Ma come si potrebbe fare concretamente? «Organizzando lo spazio di gioco in maniera intelligente e commisurata alle reali esigenze del bambino e alla sua età: può, ad esempio, portarlo al parco giochi, invitare gli amichetti, accompagnarlo a fare sport».

4. «Dobbiamo stare sempre vicini»

«L’idea che sta alla base di questo “mito” è che i bambini vadano protetti da tutto: “sei talmente prezioso che non ti posso lasciare neanche un attimo", è il sottinteso. Ma in realtà ci sono degli spazi in cui i piccoli non dovrebbero avere accesso: ad esempio il bagno, o la camera da letto. Dopo il quarto anno di vita i bambini dovrebbero essere in grado di dormire autonomamente, e soprattutto nel loro letto. Creare confusione in questi campi, non avere confini precisi, crea un problema di autorevolezza - non di autoritarismo, si badi bene - dei genitori».

5. «Chiedete sempre il loro parere»

«Anche questo tipo di prescrizione impossibile è legato al concetto di preziosità dei bambini, come se si trattasse di un vaso cinese antico. “Vuoi andare dalla zia o fare il puzzle?” sono alcune delle domande che sento fare ai piccoli. Ma il loro cervello non è pronto per ricevere questo bombardamento, i bambini non sono in grado di decidere. Un esempio di domanda inopportuna? “Chi ti fa dormire stasera, la mamma o il papà?”. Si tratta di una decisione che gli crea dell’ansia: i genitori sono tutti e due importanti allo stesso modo».

I genitori devono organizzare la giornata dei piccoli in relazione alla loro età (un bambino di 6 non è uno di 9) e soprattutto predisporre un certo tipo di attività. «Mentre quando si tratta di scegliere i giochi da fare i bambini possono scegliere perché hanno intuito e sanno cosa li diverte di più in base alla loro età».

6. «Sono nativi digitali, non puoi impedirgli di stare allo smartphone!»

Uno dei grandi idoli dell’epoca moderna: il cellulare va messo in mano ai piccoli il prima possibile.

«Nativi digitali è un termine inventato dal marketing, non è una rivelazione scientifica: i bambini soprattutto sotto i 3 anni devono giocare con l’acqua, la sabbia, fare i travasi, non stare incollati al tablet. Anche il mito del bambino touch è inesistente: il cervello dei piccoli è lo stesso dei bambini che vivevano all’epoca di Maria Montessori, un cervello di tipo sensoriale, non hanno una tastiera in testa. Anche la comunità scientifica lo conferma: i primi 3 anni di vita devono essere completamente sensoriali. La mano è l’organo che è più in connessione con le aree cerebrali che contribuiscono allo sviluppo».

7. «Il dialogo deve esserci ad ogni costo»

«Quello che conta è stare in relazione o educare i figli? Anche se non si parla sempre e comunque, soprattutto quando i figli sono adolescenti e non ne hanno nessuna voglia, la relazione c’è comunque, attraverso una conoscenza inconscia delle emozioni reciproche: il legame è un dato di fatto».

Quello che è importante costruire sono le mosse giuste a seconda dell’età: «i bambini sono più sensibili e malleabili, mentre la fase più critica è la preadolescenza (11 – 14 anni), quando esplode il bisogno di allontanamento. Si tratta di una situazione che va gestita. Se il figlio vuole schiodarsi dal nido materno, è inutile riproporglielo: in questa fase il materno dovrebbe fare spazio al paterno. Per l’adolescente è importante avere la sua libertà: il padre mette dei limiti, ad esempio la paghetta, entro i quali l’adolescente può muoversi (il messaggio è “non sono un bancomat, tu hai i tuoi soldi e ti organizzi”)».

L’atteggiamento vincente


Una volta “scoperte” queste bugie, è importante ricordarsi che «il genitore perfetto non esiste, ma quello organizzato sì: bisogna cercare quindi di fare le mosse giuste, di creare una buona organizzazione educativa, alleandosi con l’altro genitore: dare regole da soli non serve, e l’ideale è parlare di più tra mamma e papà piuttosto che bombardare i figli di parole».

«Con bambini e adolescenti, l’atteggiamento vincente è cercare di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno: ad essere positivi non si sbaglia mai», spiega Novara, che ricorda in chiusura una frase di un sociologo, poeta ed educatore che è stato fondamentale nella sua formazione, Danilo Dolci: «Ognuno cresce solo se sognato».

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