Nessuno sa con certezza quanti siano oggi i bambini fuori famiglia in Italia e quali siano le loro condizioni. I dati a disposizione, infatti, sono incompleti, non aggiornati, e in questa mancanza di informazioni si perdono le tracce dei minori, mamme e papà, che sono in questa difficile situazione.
La stessa Commissione Bicamerale sull'infanzia e l'adolescenza, che si è recentemente occupata della questione, ha sottolineato la necessità di realizzare una rete integrata, nazionale, di raccolta dati per conoscere in tempo reale il numero complessivo dei minori allontanati dalle loro famiglie e loro relativa collocazione.
Il quadro normativo
Le leggi e i regolamenti fondamentali su questo tema sono:
- Legge 149/2001 articoli da 1 a 5;
- Costituzione italiana, articoli 29 e 30;
- Codice Civile, articoli dal 315 in poi, in particolare l'articolo 330;
- Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989;
- Codici deontologici di assistenti sociali, psicologi, medici, avvocati (forense);
- Linee guida locali sull'affidamento minorile;
- Linee di Indirizzo sull'intervento con le famiglie in situazioni di vulnerabilità
- Linee di indirizzo sulle comunità per minori
Perché e quando si adotta un provvedimento di allontanamento
Lo scopo di un allontanamento è quello di «tutelare i diritti dei minorenni e recuperare, ove possibile, con il sostegno dei servizi sociali e sanitari, la piena responsabilità genitoriale» spiega Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio nazionale degli Assistenti sociali.
Questo evento «può essere disposto esclusivamente dall'autorità giudiziaria ed è il risultato di un percorso di valutazione, multidisciplinare e collegiale, sulle condizioni di rischio nelle quali vive il minore di età: viene quindi adottato solo ed esclusivamente nell'ottica di garantire il minore e il suo benessere».
L'allontanamento è quindi l'esito di una perizia a cui «partecipa anche l'assistente sociale con le proprie competenze specifiche» e può essere adottato qualora il genitore «non sia in grado di rispondere ai bisogni di crescita del proprio figlio, lo costringa a vivere esperienze non adatte all'età o non gli assicuri una routine corretta, con orari definiti per mangiare e per dormire. Può capitare che il bambino viva in un ambiente inaffidabile, in cui non ci sia una gestione attenta dei rapporti interpersonali, o in cui per esempio sia costretto ad assistere a scene di violenza tra i genitori».
Ci sono poi i casi in cui i bambini soffrono a causa di trascuratezze fisiche: «genitori che non curano la salute dei figli, da malattie dermatologiche a condizioni ambientali non agevoli.
Infine, l'allontanamento può verificarsi nei casi in cui i bambini siano sottoposti a maltrattamenti fisici o venga messa a rischio la loro vita».
In questi casi compito dei servizi sociali è quello di far capire ai genitori i bisogni del figlio e lavorare insieme a loro per migliorare la situazione, educandoli affinché il bambino possa crescere in un ambiente sano e rispondente alle sue necessità.
Come avviene l'allontanamento
«Le situazioni che determinano pregiudizio per un minorenne possono essere esposte o segnalate alle Forze dell'Ordine, ai Servizi sociali o direttamente alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni da parte di tutti i cittadini, dagli interessati e dai professionisti delle strutture educative e scolastiche, sociali e sanitarie» spiega Gazzi.
L'allontanamento poi viene eseguito seguendo «Le Linee guida per gli interventi di allontanamento frutto di un attento lavoro del Tavolo interistituzionale promosso dal Consiglio nazionale degli Assistenti sociali».
In questo documento si prevede «che l'intervento di allontanamento viene accompagnato da un'opportuna e approfondita indagine psicologica e sociale nell'interesse della persona di età minore, dei suoi genitori e della famiglia allargata; che al minorenne devono essere garantiti, in ogni fase i diritti di informazione, di ascolto e, se fornito della capacità di discernimento, la possibilità di esprimere la sua opinione; che i genitori e i fratelli eventualmente non allontanati devono essere informati, prima, durante e dopo l'allontanamento e coinvolti – ove possibile, nell'interesse del minorenne – nella scelta delle relative modalità e che siano privilegiate le modalità di accompagnamento all'allontanamento, che favoriscono la collaborazione dei genitori e di altri familiari coinvolti».
Le norme inoltre indicano che nel momento dell'allontanamento, «va evitato il ricorso alla forza pubblica se non come modalità residuale ed estrema e, comunque, se indispensabile, al fine del mantenimento dell'ordine pubblico o della necessità di salvaguardare l'incolumità fisica delle persone anche estranee; in ogni caso da attuarsi con il coinvolgimento di personale in borghese e idoneamente formato».
Che cosa succede dopo
«L’allontanamento è un atto che viene sempre ben ponderato proprio perché rappresenta sempre e comunque un evento doloroso per il minorenne e per i genitori, portatore di un cambiamento molte volte repentino» continua l'esperto.
Proprio per questo motivo «il minorenne viene sostenuto nell’elaborazione dell’evento legato alla separazione dal suo ambiente di vita, che anche se inidoneo e all’interno del quale esistono condizioni familiari e relazioni disfunzionali, è comunque una realtà conosciuta».
È poi previsto anche un percorso di sostegno per i genitori nell'ottica di recuperare la loro capacità genitoriale e permettere il rientro del minore in famiglia. La legge prevede che l'allontanamento abbia una durata massima di 24 mesi, che però poi possono essere prorogati a seconda dei casi.
Le critiche
«Quella indicata dalla legge è solo la teoria; purtroppo, in Italia la pratica è molto diversa» commenta Catia Picherri, responsabile nazionale dell'ufficio legislativo di Rete Sociale, organizzazione senza fini di lucro che si propone di offrire un modello nuovo di tutela e consulenza in contesti familiari caratterizzati da situazioni di disagio minorile e devianze giovanili.
I problemi principali degli allontanamenti dei minori dalle loro famiglie individuati dall'esperta sono principalmente quattro:
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Il percorso di valutazione che porta all'allontanamento spesso non è sufficientemente approfondito
«In molti casi, l'assistente sociale agisce sulla base di pregiudizi e preconcetti. L'operatore, infatti, è spesso visto con timore dalle famiglie già fragili, che hanno paura di lui e non credono nel suo tentativo di aiuto. Quindi capita spesso che si chiudano e non siano collaborative; così l'assistente finisce per agire più sull'onda delle sue sensazioni che non su fatti reali basati su prove effettive» sottolinea la dottoressa Picherri.
«Definiamo come psicopatologico l'approccio dei vari operatori, dagli psicologi alle maestre d'asilo – commenta Paolo Roat, responsabile nazionale Tutela dei minori del Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani –.Non vi è dubbio che nei casi di allontanamento siano presenti delle fragilità familiari, ma sono situazioni su cui si potrebbe lavorare con profitto se si adottasse un approccio pedagogico orientato alla ricostruzione delle competenze genitoriali».
Carente è anche la formazione di chi si occupa delle Consulenze Tecniche d'Ufficio nei Tribunali dei Minori. «Si tratta di perizie, spesso determinanti, che dovrebbero essere una raccolta di prove oggettive per fornire al giudice degli elementi in più per valutare il caso. Ma spesso le metodologie, a partire dai test psicologici utilizzati, e le prove raccolte hanno poco di obiettivo o scientifico. Nella mia esperienza, la maggior parte delle CTU che ho visto non è attendibile – denuncia Paolo Cioni, psichiatra forense consulente del Tribunale di Firenze –. C'è infatti una tendenza generale all'omologazione e all'automatismo. Gli approcci dei professionisti sono spesso molto rigidi e tengono poco conto delle specificità dei singoli casi. Si tende a patologizzare il normale e a normalizzare il patologico. Genitori troppo affettuosi sono considerati problematici, mentre in molti casi non vengono rilevati disturbi bipolari o paranoici». -
Il percorso post-allontanamento per il minore e la famiglia è blando e incompleto
«Appena un minore viene allontanato, gli operatori dovrebbero avere già chiaro il percorso e le tempistiche di recupero per i genitori e di sostegno per il bambino. Questo non avviene praticamente mai. Dal percorso psicologico, che spesso vuol dire un incontro ogni 15 giorni; ai trasferimenti del minore, magari in un'altra regione per evitare che scappi (anche se la legge prevede che sia sistemato il più vicino possibile alla famiglia); fino agli stessi incontri tra il bambino e i genitori, che spesso avvengono una sola ora ogni mese (spesso per questioni di costi); mancano le condizioni base previste dalla legge per permettere un rientro del bambino nella sua famiglia» sottolinea la dottoressa Picherri.
Una situazione che determina poi il prolungamento della durata dell'allontanamento, oltre i 2 anni previsti dalla legge, che secondo l'indagine della Commissione Bicamerale riguarda quasi un bambino su quattro (il 23% dei casi). -
La preparazione degli operatori non è adeguata
«Gli operatori spesso non sono adeguatamente preparati per affrontare queste situazioni e le università non danno il giusto contributo per formare professionisti in grado di comprendere il quadro legislativo in cui muoversi e come farlo». -
La mancanza di controllo sui bambini e sulle strutture in cui vengono affidati
«Ogni sei mesi, gli assistenti sociali dovrebbero controllare le condizioni del bambino e della struttura a cui vengono affidati. Questo succede pochissimo, come se l'allontanamento fosse l'ultimo passo di un percorso, quando invece il fine sarebbe il ricongiungimento familiare. Così il Tribunale dei Minori smette di interessarsi di questi bambini, esponendoli anche a dei gravi pericoli».
Che cosa possono fare i genitori per proteggersi
«Le famiglie che si trovano ad affrontare un percorso di allontanamento del proprio figlio (o figli) devono sapere se non sono sole – dichiara Paolo Roat, del CCDU –. Sul nostro sito abbiamo elaborato un vademecum e messo a disposizione dei documenti per tutelarsi in queste situazioni. I nostri volontari, poi, seguono queste famiglie indirizzandole ai professionisti che li possono aiutare. In questi anni siamo riusciti a riportare a casa più di 100 bambini».
Il sogno dell'associazione sarebbe quello di «introdurre una nuova figura professionale, un "traduttore socio-familiare" in grado di mediare tra i bisogni e le esigenze della famiglia e quelle dello Stato, in modo che non ci siano fraintendimenti».
Che cosa bisognerebbe fare davvero
«Per migliorare la situazione, bisognerebbe agire su più livelli e strutturare una procedura comune su tutto il territorio nazionale basata su alcuni punti fermi, come la necessità di un percorso di sostegno per permettere il rientro del minore nella sua famiglia» sottolinea la dottoressa Picherri.
Si tratta di punti condivisi e auspicati anche dall'indagine della Commissione Bicamerale pubblicata lo scorso 17 gennaio 2018.
- Istituire un registro di dati aggiornato in tempo reale
- Definire i cosiddetti LIVEAS, ossia i Livelli essenziali delle prestazioni sociali
«L'attuazione di tale disposizione determinerebbe la concreata garanzia di un livello di eguale godimento dei diritti sociali in tutto il territorio nazionale, senza compromettere la potestà regionale di definire le modalità di organizzazione dei servizi e la possibilità di prevedere livelli ulteriori di assistenza» è scritto nel documento parlamentare. - Creare un progetto quadro in cui siano chiari i tempi, i meccanismi di verifica e la valutazione in termini di costi/benefici delle varie azioni messe in campo
«L'obiettivo dovrebbe sempre essere quello di cercare di evitare il più possibile un allontanamento. Dalla nostra esperienza, infatti, emerge che bambini e adolescenti che sono stati anni lontani da casa molto facilmente sviluppano disturbi della personalità molto gravi, basati su angosce di abbandono dovute proprio a quest'esperienza» sottolinea il neuropsichiatra e autore di diversi testi sul tema, Gianbattista Camerini.
Nei casi in cui ci fosse un pericolo reale per il minore o l'allontanamento non fosse più dannoso della sua permanenza in famiglia e dopo aver fatto tutti i tentativi possibili in alternativa all'allontanamento, «È importante creare a monte un piano di rinforzo genitoriale personalizzato sulla base delle caratteristiche delle singole famiglie».
Nel piano bisognerebbe poi valutare bene il costo/beneficio delle singole misure di sostegno: «Il costo per un bambino alloggiato in una struttura di accoglienza può avvicinarsi ai 150 euro al giorno. Ora, bisognerebbe capire se quella cifra non sarebbe meglio investirla in migliori servizi alla famiglia, come l'intervento di educatori domiciliari (il cui costo è di 20 euro all'ora), piuttosto che destinarli a una struttura esterna in cui il bambino è lontano dai genitori». - Prediligere l'affido intrafamiliare, cioè dai parenti entro il IV grado, piuttosto che il collocamento presso le comunità familiari, come previsto dalla legge 149/2001
- Effettuare dei controlli periodici sulle strutture di accoglienza
- Creare percorsi multidisciplinari e di specializzazione per gli operatori del settore
Allontanamenti per motivi economici
La legge n. 149 del 2001 dispone che non si possano effettuare degli allontanamenti a causa delle condizioni di indigenza dei genitori.
«L'allontanamento non avviene assolutamente mai per motivi economici e qui bisogna essere tassativamente chiari – dice Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio nazionale degli Assistenti sociali –. Come anche definito nelle norme, mai – ripeto, mai – può aver luogo un allontanamento motivato da condizioni economiche o ambientali. È una spiegazione che si danno i genitori nell’equazione “sono povero, mi portano via il figlio” in una sorta di autoassoluzione».
Anche in questo caso, però, le associazioni puntano il dito contro gli operatori: «Formalmente l'allontanamento non avviene per problemi economici, ma è nelle famiglie povere che c'è il più alto tasso di allontanamenti – sottolinea Catia Picherri, responsabile nazionale dell'ufficio legislativo di Rete Sociale –. Questo perché la povertà spesso è fonte di tensioni che rendono più difficile la corretta gestione di un bambino. Anche in questo caso, bisognerebbe valutare meglio i benefici di un allontanamento, quando magari basterebbe un percorso più solido nel rafforzamento delle competenze genitoriali».
Il Programma di Intervento per la prevenzione dell’Istituzionalizzazione
Per cambiare la situazione e garantire un futuro migliore ai bambini e alle famiglie che vivono condizioni di disagio, il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ha attivato e finanziato dal 2011 P.I.P.P.I., un programma sperimentale che in questi anni ha coinvolto 19 regioni e circa la metà (260) ambiti territoriali.
Ogni area territoriale italiana può richiedere la partecipazione: ciò significa implementare un determinato programma, seguendo 10 famiglie attraverso specifici materiali e strumenti e registrare i risultati. Grazie a questo programma gli operatori, che lavorano in équipe, imparano a lavorare soprattutto sulla valutazione adeguata delle famiglie (i loro bisogni, le risorse, senza focalizzarsi sui problemi) e sul progetto specifico che permette di mobilitare le risorse giuste per migliorare la situazione per la famiglia, ma soprattutto per il minore.
«Si tratta della più ampia sperimentazione italiana, in termini di tempo, aree, famiglie e operatori coinvolti, che ha portato alla definizione di una nuova policy, cioè indicazioni unitarie su cosa si può fare prima, durante e dopo un allontanamento, grazie all'approvazione delle Linee di Indirizzo sull'intervento con le famiglie in situazioni di vulnerabilità e le Linee di indirizzo sulle comunità per minori» spiega Paola Milani, Ph.D., Professore di Pedagogia Sociale e di Pedagogia delle Famiglie dell'Università di Padova e coordinatrice del progetto.
Si tratta di linee di indirizzo importanti, ma non vincolanti, perché lo Stato non può legiferare su una materia di competenza delle Regioni. «Quindi in Italia manca una legge nazionale sulla protezione dell'infanzia. Per avere valenza legale, questi documenti dovrebbero quindi tradursi in leggi regionali».
I risultati del programma sperimentale
Laddove è stato possibile promuovere un lavoro di prevenzione, basato sul sostegno alla famiglia con strumenti come la presenza educativa domiciliare, famiglie d'appoggio, gruppi di genitori, parternariato scuola-famiglia-servizi, sostegno economico, ecc. gli allontanamenti sono calati molto.
La percentuale media di allontanamenti rispetto a tutte le famiglie e i bambini seguiti dal 2011 al 2017 è dell'1,54%. Per esempio, su 508 famiglie e 541 bambini seguiti nel biennio 2016-17 sono stati allontanati solo 10 bambini (1,8%). Nel 2015-16 sono stati 4 su 473 seguiti e 434 famiglie (0,8%).
«Tra i Paesi occidentali l'Italia non è una di quelle che utilizza di più lo strumento dell'allontanamento – sottolinea la professoressa Milani –. Noi non dobbiamo lavorare per allontanare di meno, ma per allontanare meglio. Per garantire che questa misura si attivi quando ce ne sia davvero bisogno e proporre altri strumenti per tutte le altre situazioni» spiega la dottoressa.
Per fare questo, si deve uscire da una logica di giudizio e di colpevolizzazione dei genitori e adottare un approccio di aiuto, legato alla consapevolezza che la genitorialità è una funzione dinamica che può essere appresa.
Prima dell'allontanamento, quindi, è fondamentale avere già pronto un progetto di riunificazione familiare, in cui sono definiti i tempi e i modi in cui questo potrà attuarsi e un percorso di rinforzo delle competenze genitoriali. «Quando sono stati fatti degli allontanamenti all'interno di Pippi, sono stati fatti in modo consensuale con la famiglia e con un percorso chiaro e trasparente per il rientro a casa, con visite, incontri e percorso dei genitori già stabiliti a priori».
I dati ottenuti da Pippi «dimostrano che per la stragrande maggioranza dei bambini partecipanti a questa implementazione, P.I.P.P.I. sembra aver contribuito sia ad avviare il lavoro necessario per spezzare il circolo dello svantaggio sociale che limita lo sviluppo del loro potenziale umano, sia a creare un’ampia comunità di professionisti che ha lavorato con impegno e motivazione al Programma ed è ora in grado di rendere visibili processi ed esiti del proprio intervento» si legge nell'ultimo rapporto di valutazione del progetto.
Ma il risultato più importante di Pippi non è tanto dimostrare che il progetto funzioni in sé, bensì trasmettere l'approccio di analisi e progettazione: «La sfida ultima è che il territorio in cui Pippi è stato sperimentato sia poi in grado di andare avanti da solo dopo questa esperienza, costruendo un proprio percorso in base a ciò che ha funzionato o meno a livello locale».