Mamme che pensano di tenere a casa figli che a scuola hanno compagni cinesi. Gestori di bar che affiggono divieti di ingresso a chi è appena tornato dalla Cina. Conservatori musicali che impongono visite mediche agli allievi di origine orientale. Sta montando la psicosi da coronavirus. Abbiamo chiesto alla giornalista (e medico) Roberta Villa, autrice del libro Vaccini, il diritto di (non) avere paura e membro del tavolo tecnico sulle vaccinazioni del Ministero della Salute, di aiutarci a chiarire perché queste misure non hanno alcun senso e perché farsi prendere dal panico rischia di essere controproducente.
Allora Villa: i casi in Cina aumentano minuto per minuto. In Europa siamo a 14 casi, di cui due identificati in Italia (due turisti cinesi, ora ricoverati allo Spallanzani di Roma). Quanto seriamente dobbiamo preoccuparci?
In Italia, come nel resto d'Europa, al momento non c'è un rischio reale di epidemia. E anche questi due casi identificati nel nostro paese non cambiano la sostanza delle cose, perché sono casi importati. Certo, chiaramente in queste situazioni – per il nuovo coronavirus ma in generale tutte le volte che emerge un nuovo agente infettivo – la sfida è riuscire a trovare una posizione razionale intermedia tra il panico e la sottovalutazione.
Preoccuparsi in fondo è anche giusto, perché preoccuparsi vuol dire occuparsi di un problema in modo da evitare che abbia conseguenze più gravi. Quindi è stato giusto preoccuparsi, a livello internazionale e nazionale, prendendo anche misure drastiche come il blocco di voli, perché questo ci permette di sperare che la situazione rimanga confinata entro certo limiti (dove comunque può essere seria, perché effettivamente in Cina, in particolare nella provincia di Hubei, lo è). Altro conto però è spaventarsi. Ripeto: al momento in Italia non abbiamo ragioni per andare in panico.
La paura però è umana. O no?
Certamente! È un meccanismo di difesa naturale che abbiamo mantenuto durante la nostra storia evolutiva, perché è ovvio che le malattie infettive ci hanno sempre messi a durissima prova. In un certo senso siamo programmati per difenderci da tutto ciò che lontano e diverso, ma questo oggi non può farci perdere di vista gli aspetti razionali della vicenda.
Il fattore di rischio oggi non è assolutamente il fatto di essere cinese o di origine cinese (o addirittura asiatico). Ha più probabilità di essersi infettato e di essere contagioso il manager appena rientrato da Wuhan, qualunque sia la sua nazionalità, che il ragazzino "cinese" che in realtà non lascia l'Italia da quando è nato.
Lo stigma nei confronti di tutto cioè che è cinese – le persone (compresi i bambini che vanno a scuola), ma anche i ristoranti e i prodotti made in china – è profondamente ingiusto, discriminante e non fa che gettare benzina sul fuoco rispetto a un clima già in generale poco sereno nei confronti della diversità e della multietnicità. Senza contare che il panico finisce con l'essere controproducente.
In che senso?
Molti studi hanno dimostrato che in realtà i comportamenti stigmatizzanti non solo non proteggono dalle malattie, ma hanno un grave effetto sul loro rischio di diffusione. Questo perché da un lato le persone stigmatizzate possono arrivare a mettere in atto comportamenti inappropriati proprio per paura dello stigma: per esempio potrebbero sottovalutare eventuali sintomi o nel caso di un viaggio in Cina mentire sulla data di ritorno. Dall'altro, perché gli altri rischiano un senso di falsa rassicurazione. Se si pensa che il problema siano i cinesi, non ci si preoccupa dell'imprenditore italiano appena tornato dalla Cina.
Sono effetti che sono stati studiati molto bene durante l'epidemia di AIDS. Oggi sappiamo che avere inizialmente indicato la malattia come una sindrome tipica dei gay e delle persone che facevano uso di droghe ha fatto sì che gli eterosessuali che non facevano uso di droghe si siano sentiti al sicuro. Per gli esperti non ci sono dubbi: evitare atteggiamenti stigmatizzanti è fondamentale per il controllo delle epidemie.
E come se non bastasse va menzionato l'impatto sull'economia mondiale. Credo che questa situazione avrà un grosso impatto sull'economia: il blocco dei voli e delle aziende in Cina lo sta già avendo e non è il caso di aggiungere impatti non necessari, come quelli relativi all'evitamento dei ristoranti o dei prodotti made in china.
Ma quindi quali indicazioni possiamo dare a genitori italiani, preoccupati per la sicurezza dei loro figli?
Intanto ricordiamo che non stiamo parlando di una malattia temibile come la SARS, che provocava solo casi gravi: chi aveva la SARS finiva in rianimazione e una persona su 10 colpite moriva. Con il nuovo coronavirus per ora non è affatto così: la stima è che solo una persona su dieci infettate arrivi all'osservazione (forse anche meno), perché negli altri casi sviluppa sintomi talmente blandi da non farla neppure preoccupare. Tra quelli che giungono all'osservazione, solo uno su dieci è grave, e tra questi ultimi la letalità sembra del 2%.
In secondo luogo, secondo i dati disponibili sembra che nei bambini il coronavirus dia forme particolarmente leggere.
E ancora: in Italia, come nel resto d'Europa, la situazione appare al momento sotto controllo. Non ci sono prove di fenomeni importanti di trasmissione: in Francia e in Germania ci sono stati casi molto limitati di trasmissione interna e da noi abbiamo avuto solo due casi importati. Dunque ribadiamolo: i membri della comunità cinese o di origine cinese non presentano alcun rischio particolare di contagio, a meno che non siano rientrati dalla Cina (e in particolare dalle regioni colpite dal nuovo virus) nelle ultime due settimane.
Ma questo vale per chiunque, non solo per i cinesi.
Se proprio qualcuno dovesse avere qualche dubbio su qualche situazione particolare, il mio invito è di chiamare il numero verde di pubblica utilità 1500, potenziato in queste ore proprio per rispondere alle domande sul coronavirus. E se qualcuno appena tornato dalla Cina – o che è stato a stretto contatto con qualcuno appena tornato dalla Cina - dovesse proprio sentirsi male, con sintomi influenzali e difficoltà respiratorie, l'invito è a chiamare il 118, che gli indicherà il da farsi.