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Islanda: un Paese (quasi) senza bambini down

di Federica Baroni - 23.08.2017 - Scrivici

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Fonte: Ipa
In Islanda la sindrome di Down sta scomparendo. Il motivo è la diffusione capillare del test di screening prenatale e il fatto che, se il risultato è positivo, la quasi totalità delle donne sceglie di interrompere la gravidanza. 

Negli ultimi anni in Europa e negli Stati Uniti con l'introduzione dei test di screening prenatale sono notevolmente diminuiti i bambini nati con sindrome di Down. Ma in nessun Paese si è raggiunta una percentuale così bassa come in Islanda, quasi lo 0%.

Questa realtà è raccontata da un documentario della Cbs dal titolo «In che tipo di società vogliamo vivere? Il dilemma legato alla Sindrome di Down».

In Islanda le diagnosi prenatali sono state introdotte nel 2000 e a sottoporsi a questi esami sono all'incirca l'80/85% delle donne in gravidanza, secondo quanto riporta l'Università di Landspitali a Reykjavik.

I nuovi test sono molto meno invasivi rispetto ai precedenti ( villocentesi e amniocentesi). Utilizzando un'ecografia, un test del sangue e l'età della madre, il test, chiamato Test Combinato, determina se il feto avrà un'anomalia del cromosoma, la più comune delle quali provoca la sindrome di Down.

In Islanda quasi il 100% delle donne che ricevono un risultato positivo interrompono la gravidanza, (nel 2015 le interruzioni in Danimarca erano al 98%; 90% nel Regno Unito; 77% in Francia e 67% negli Stati Uniti).

Con una popolazione di circa 330.000, l'Islanda ha in media solo uno o due bambini nati con la sindrome di Down all'anno, e non per scelta, ma perché il test ha una precisione dell'85%.

"Tra i neonati che nascono ancora oggi con Sindrome di Down in Islanda – ha dichiarato Hulda Hjartardottir, capo dell’unità di diagnosi prenatale dell’ospedale universitario di Landspitali, dove nascono circa il 70 per cento dei bambini islandesi – alcuni di loro risultavano a basso rischio nei nostri test di screening e quindi non sono stati segnalati".

ll genetista Kari Stefansson, fondatore della deCODE Genetics, società che ha studiato quasi tutti i genomi della popolazione islandese, spiega alla Cbs che queste scelte andranno a influire sulle prospettive genetiche di un'intera nazione. E non può mancare una riflessione etica.

“Non c’è niente di male nell’aspirare ad avere figli sani, ma è difficile decidere quanto in là ci si debba spingere nell’inseguire questo obiettivo” afferma Stefansson.

Secondo la dott.ssa Hjartardottir, in Islanda si cerca di fare il più possibile “consulenza neutrale” alle mamme che ricevono un test positivo, ma alcune persone potrebbero obiettare che già l’offerta del test indichi una certa direzione. Infatti, più di quattro donne su cinque in gravidanza optano per il test di screening prenatale.

Helga Sol Olafsdottir si occupa di dare supporto psicologico alle donne che hanno riscontrato un’anomalia cromosomica e le aiuta a prendere una decisione se portare avanti o interrompere la gravidanza. "Questa è la tua vita– dice loro – e solo tu hai il diritto di scegliere come sarà".

All'obiezione che alcuni potrebbero considerarlo un omicidio, la Olafsdottir risponde: "Noi non vediamo l’aborto come un omicidio, lo consideriamo come una conclusione, abbiamo interrotto una vita che avrebbe avuto grandi complicazioni… abbiamo contribuito a impedire la sofferenza per quel bambino e per la sua famiglia. E credo che questo sia più giusto che considerarlo un omicidio, così bianco o nero: la vita non è bianca e nera, la vita è grigia".

Antonella Falugiani, presidente italiano di Coordown, che raggruppa diverse associazioni sottolinea quanto è fondamentale una buona informazione: "E' importante che sia corretta. La coppia deve poter avere tutti i dati per compiere una scelta consapevole".

Le notizie dall’Islanda non stupiscono. Era solo questione di tempo e prima o poi sarebbe accaduto dicono dalle associazioni che si occupano dei diritti delle persone con sindrome di Down al Corriere della Sera.

In Italia, secondo l'Oms, nasce un bambino Down ogni 1200. Sono circa 40mila le persone affette dalla sindrome, con un'età media 25 anni. E se all'inizio del '900 la sopravvivenza era di 10 anni, ora è arrivata a 62.

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