Non tutte le gravidanze, purtroppo, vanno bene.
Non sempre l'ecografia è quel momento incantato in cui si può sbirciare il proprio bambino. A volte, succede che l'esame riveli un problema, come la presenza di malformazioni. E lo stesso vale per la diagnosi prenatale: non si pensa mai che i test mostreranno che c'è qualcosa che non va, ma talvolta è esattamente quello che accade. Situazioni drammatiche, di fronte alle quali si apre la possibilità di un aborto terapeutico, un evento che si accompagna in genere a dolore, rabbia, confusione, senso di colpa.
E che può avere conseguenze pesanti sulla salute psicologica della donna, soprattutto se le viene a mancare la giusta assistenza durante il processo di decisione e le settimane successive all'interruzione di gravidanza e se non le viene data la possibilità di vivere il lutto che l'accompagna.
Lo shock della diagnosi infausta
La notizia che c'è qualcosa che non va nella gravidanza o che il feto ha qualche grave problema arriva in genere come un fulmine a ciel sereno. "Anche quando si fa la diagnosi prenatale, il pensiero che potrebbe emergere un problema rimane nascosto" afferma la psicoanalista Nadia Muscialini, autrice di un libro dedicato alle Maternità difficili (Franco Angeli, 2010).
Per la mamma, e in generale per la coppia, la prima reazione è quella di uno shock terribile, accompagnato all'angoscia di dover prendere una decisione sulla gravidanza: portarla avanti o interromperla?
L'angoscia della decisione
Dal punto di vista della legge che regola l'aborto terapeutico - la legge 194 del 1978 - la decisione riguarda non tanto un'eventuale malattia fetale considerata di per sé, quanto le possibili complicazioni per la salute fisica o psicologica della mamma. "Nella pratica, di fronte alla diagnosi di malattie o malformazioni fetali l'elemento principale preso in considerazione dalla coppia per decidere che cosa fare è una valutazione di quella che potrebbe essere la qualità della vita del bambino" racconta Muscialini.
Non sempre, però, è possibile farsi un'idea chiarissima di quali saranno le condizioni di vita del figlio.
"Può succedere che i medici non riescano a dire con sicurezza che caratteristiche avrà quel bambino, una volta nato, e questo comporta una difficoltà in più, cioè dover ragionare su probabilità e non su certezze" sottolinea la psicoanalista. "Soprattutto in questi casi - ma vale in generale - è fondamentale la disponibilità dell'équipe medica ad assistere la coppia, fornendo in modo chiaro e pacato tutte le informazioni sulle possibili conseguenze e sulle eventuali opportunità di terapia e di intervento e rispondendo a tutte le domande che potranno venire in mente ai genitori, che magari torneranno più volte sugli stessi punti".
L'altro problema è che spesso tutto avviene molto rapidamente. "Soprattutto nel caso di diagnosi fatte a partire dall'ecografia morfologica, dunque intorno alle 20 settimane, non c'è molto tempo per intervenire, perché l'interruzione di gravidanza è possibile fino alle 22-23 settimane". Dunque non solo bisogna prendere una decisione difficilissima, ma bisogna farlo in fretta.
Il dolore della perdita
Ma come viene vissuta, in genere, un'interruzione terapeutica di gravidanza? "Le emozioni più comuni sono dolore, rabbia, confusione, agitazione, senso di colpa" spiega Claudia Ravaldi, psicoterapeuta e presidente dell'associazione CiaoLapo Onlus per la tutela della gravidanza e della salute perinatale. "Sono le emozioni tipiche del lutto ed è normale che sia così perché, comportando una morte, anche l'aborto terapeutico comporta un lutto".
Spesso si tende a sottostimare questo aspetto, nell'idea che essendo frutto di una scelta, l'aborto non si porti dietro anche un lutto. "Ma non funziona così" spiega Ravaldi. "C'è comunque una perdita, anzi ci sono più perdite: del bambino, della relazione intima con il bambino, della progettualità di una vita insieme, di una parte della propria immagine come persona. Dunque è inevitabile che ci sia un lutto, un senso di vuoto profondo e totalizzante, e che i ritmi della vita quotidiana possano esserne sconvolti. Per esempio, è normale che, nelle settimane o nei mesi successivi all'evento, le donne siano abbattute e apatiche o, viceversa, iperattive".
Difficile dire quanto può durare questo lutto: qualche mese per Muscialini, da sei mesi a due anni - alternando periodi di benessere e ricadute in periodi più dolorosi e difficili - secondo Ravaldi. "Per esempio - spiega la psicoterapeuta - sono periodi difficili quelli vicini a date significative e ricorrenze, come la data dell’interruzione di gravidanza, quella della diagnosi infausta, la data presunta del parto".
Cosa condiziona l'elaborazione del lutto
La verità, comunque, è che durata e intensità del lutto variano da persona a persona, in base a tantissime variabili: le risorse personali, la presenza di un compagno (ma in generale di amici e familiari) attento e in grado di fornire sostegno, il modo in cui è stato vissuto l'evento. "Per esempio è molto importante l'empatia dei medici e degli operatori sanitari durante l'intervento" sottolinea Ravaldi.
Pratica clinica e letteratura scientifica, inoltre, suggeriscono che l'esperienza di vedere il bambino dopo la nascita aiuti a elaborare il lutto. "Può sembrare paradossale e macabro ma è così: vedere il piccolo, tenerlo in braccio, perfino scattargli delle foto aiuta il processo di separazione e calma molte angosce" racconta Muscialini. "A distanza di anni, le donne in genere ricordano con dolcezza quei momenti passati con il loro bambino dopo il parto, e alcune rimpiangono di non avere conservato delle foto".
Come aiutare le donne dopo un aborto terapeutico
Insomma, è inutile negarlo: la vita dopo un'interruzione terapeutica di gravidanza non è per niente facile. In modo più o meno intenso si vive un lutto, che può durare più o meno a lungo. L'importante, però, è che alla donna sia data la possibilità di viverlo davvero, questo lutto. Di piangere per il suo bambino perduto.
Spesso le donne non esprimono la propria sofferenza perché temono di venire giudicate. Oppure non la esprimono perché non trovano nessuno con cui farlo. "Molte mi raccontano di essere rimaste profondamente sole dopo l'aborto, mi dicono che di fronte al loro bisogno di piangere, di sfogarsi, amici e familiari sono proprio scappati" riporta Muscialini.
"Invece, per aiutarle sarebbe importante esserci, accogliere il loro bisogno di raccontarsi, senza minimizzare l'accaduto con frasi del tipo non pensarci, non preoccuparti che tra poco ne farai un altro, il peggio è passato. Sono frasi molto dolorose per chi le riceve, perché sono una negazione di quello che è stato. E invece la gravidanza c'era, il bambino c'era, il lutto c'è e riconoscere tutto questo è il primo passo per superarlo".
In questo senso, in mancanza di una rete di sostegno da parte di familiari e amici, può essere d'aiuto la consulenza di uno psicologo - soprattutto se dopo diversi mesi non c'è alcun miglioramento dei sintomi del lutto - o il confronto con donne che abbiano vissuto esperienze simili, offerto per esempio dai gruppi di automutoaiuto di associazioni come CiaoLapo. Il rischio, altrimenti, è di andare incontro a quello che gli esperti definiscono "lutto complicato", un lutto che si protrae per un tempo molto lungo, con sintomi evidenti, e che può lasciare alla donna una pesante eredità di depressione.
Altre fonti per questo articolo: Articolo di Claudia Ravaldi sull'aborto volontario.
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Rimasi incinta a 40 anni di un meraviglioso bimbo, ma poco tempo dopo i medici mi dissero che aveva una displasia scheletrica che lo avrebbe fatto nascere paralizzato dal collo in giù. Decidemmo per l'interruzione terapeutica di gravidanza. Furono giorni molto difficili. Dopo due anni è nato, quattro mesi fa, il mio Gabriel. Ho avuto paura per tutti e nove i mesi della gravidanza. Lui ha portato l'amore dentro un cuore distrutto. Il mio angelo invece è in un angolino di cielo dove può correre forte con le sue gambine.