La paura più grande, in uno dei momenti che dovrebbe essere tra i più belli di sempre: è la paura che prende quando una diagnosi di tumore arriva, più imprevista e brutale che mai, durante una gravidanza. Un evento raro, sebbene in aumento, che colpisce circa una donna incinta su mille e che fino a non molti anni fa di fatto obbligava a scegliere tra la vita della mamma e quella del bambino. Il dilemma era terribile: affrontare terapie potenzialmente pericolose per il feto interrompendo la gravidanza, oppure decidere di non curarsi per non esporre il bambino al rischio di danni, correndo però quello di non farcela a superare la malattia. Oggi, per fortuna, non è più così. In molti, moltissimi, casi scegliere non è necessario perché si è visto che la futura mamma può curarsi proprio come farebbe una donna non incinta, con analoghe probabilità di sopravvivenza e con rischi possibili, ma tutto sommato limitati per il bambino che porta in grembo.
Sempre meno interruzioni volontarie di gravidanza in caso di tumore
Una delle ultime conferme in questo senso viene da uno studio pubblicato nel gennaio 2018 sulla prestigiosa rivista Lancet Oncology da un gruppo di lavoro del Network internazionale su cancro, fertilità e gravidanza. Lo studio ha coinvolto 1770 donne di 16 diversi paesi alle quali tra il 1996 e il 2016 è stato diagnosticato un tumore in gravidanza.
“Abbiamo visto che nel tempo il numero di aborti terapeutici a seguito della diagnosi è diminuito, perché sia negli operatori sia nelle donne è aumentata la consapevolezza che almeno a partire dal secondo trimestre si può fare chemioterapia in modo relativamente sicuro” commenta Fedro Peccatori, direttore dell’Unità di fertilità e procreazione in oncologia all’Istituto europeo di oncologia di Milano, tra gli autori dell'indagine.
Un messaggio positivo per le donne
Non significa certo che sia una passeggiata.
Qualche rischio per il piccolo comunque c'è, in particolare di basso peso alla nascita e parto prematuro, e l'impatto psicologico per queste donne è fortissimo. "Lo vediamo ogni giorno in clinica ed emerge chiaramente dai dati che stiamo raccogliendo per un progetto di ricerca sulle rappresentazioni mentali delle donne incinte con un tumore" riconosce Peccatori. Che spiega: "Sono donne molto preoccupate per i possibili effetti dei trattamenti sui loro bambini, ma anche angosciate dall'idea di non riuscire a essere madri 'efficaci' nei loro primi mesi o anni di vita, o di non riuscire a farcela, lasciandoli soli fin da piccolissimi". Ma sono anche mamme che spesso trovano proprio nei loro figli una forza inaspettata per reagire e che immaginano la stessa forza anche nei loro bambini, intimi compagni di un viaggio indesiderato e pure inevitabile.
Nel complesso, comunque, il messaggio da passare è positivo: gli studi più recenti dimostrano che il cancro in gravidanza può essere affrontato e curato, con prospettive materne paragonabili a quelle di donne che non sono in gravidanza e prospettive per il bambino "cautamente ottimistiche".
Cancro in gravidanza: quanto è frequente e di quali tumori si tratta
Per fortuna, scoprire di avere un tumore mentre si aspetta un bambino è un evento raro che riguarda circa una gravidanza ogni 1000, cioè circa 500 donne all'anno in Italia. In futuro, però, questo dato potrebbe salire ulteriormente (come è effettivamente salito negli ultimi decenni), per effetto di un innalzamento dell'età materna.
In altre parole: poiché con l'aumentare dell'età aumenta la probabilità di sviluppare un tumore, e poiché si sta alzando sempre più l'età in cui le donne hanno figli, specialmente in Italia (l'età media al primo figlio era di 31,4 anni nel 2020, secondo i dati Istat), oggi è più facile che in passato incorrere in una diagnosi di tumore in gravidanza.
Come riporta l'Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (AIRC), le forme di cancro più facilmente diagnosticate in gravidanza sono anche quelle che più di frequente si riscontrano in generale in donne tra i 30 e i 45 anni e cioè:
- tumore del seno (circa 40% dei casi). Secondo le ultime stime a disposizione (Rapporto AIRTUM 2020) lo scorso anno sono stati registrati circa 55mila nuovi casi;
- tumori ginecologici (cervice uterina e ovaio);
- leucemie e linfomi (circa 20%);
- melanomi.
"Possono essere forme piuttosto aggressive, come lo sono in generale i tumori che colpiscono i giovani adulti" afferma l'oncologo.
La diagnosi di un tumore in gravidanza
In alcuni casi il fatto di essere incinte può facilitare la scoperta di un tumore. Per esempio: se non è stato fatto di recente, in occasione della prima visita in gravidanza il ginecologo esegue in genere il Pap-test, un semplice esame che permette di scoprire un eventuale cancro della cervice uterina (o collo dell'utero). Un controllo di routine della gravidanza diventa quindi l'occasione per un'eventuale diagnosi tempestiva.
Secondo quanto riferito dall'approfondimento su cancro e gravidanza dell'Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc), “il 70% dei tumori della cervice uterina scoperti durante la gravidanza è ancora in fase iniziale e, se non ci sono linfonodi coinvolti, se ne può rimandare il trattamento”.
Altre volte, invece, succede il contrario, e cioè che la gravidanza ostacoli la diagnosi della malattia. Questo perché alcuni cambiamenti tipici di questo periodo – come la stanchezza o il gonfiore addominale - possono mascherare sintomi magari aspecifici del tumore. L'esempio tipico è quello di un nodulino al seno, che può essere confuso con il normale cambiamento della “tessitura” della ghiandola mammaria che accompagna il fatto di aspettare un bambino.
“Per questo in caso di dubbi è sempre meglio essere prudenti e avvertire subito il medico, che potrebbe rimandare a ulteriori accertamenti. Molto probabilmente non sarà nulla di preoccupante, ma è sempre opportuno controllare” consiglia Peccatori.
Diagnosi di tumore in gravidanza: quali esami sì, quali no
Per evitare il rischio di danni al feto, se c'è il sospetto di un cancro vanno selezionati con cura gli esami da eseguire per arrivare a un'eventuale diagnosi (o escludere la malattia).
Via libera, in generale, a tutti quegli esami che non prevedono l'uso di raggi X, come:
- l'ecografia;
- le biopsie;
- l'endoscopia (gastroscopia, broncoscopia, colonscopia, ecc.).
La risonanza magnetica può essere utilizzata se strettamente necessario, preferibilmente senza mezzo di contrasto a base di gadolinio. In realtà anche alcune radiografie possono essere effettuate – per esempio mammografia o lastra del torace – purché si adottino particolari accortezze, come schermature speciali dell'addome.
Meglio evitare invece Tac, Pet e scintigrafia ossea, che comportano un'esposizione a elevati livelli di radiazioni. Il loro uso va limitato ai casi di assoluta necessità, dopo aver accuratamente soppesato rischi e benefici.
La gravidanza NON peggiora il tumore
Una delle preoccupazioni più diffuse quando si parla di cancro in gravidanza è che il fatto stesso di aspettare un bambino – con tutti i cambiamenti fisiologici, metabolici e ormonali che questo comporta – possa peggiorare il quadro clinico della malattia. In realtà non è così.
"Può succedere che la prognosi sia peggiore se il tumore viene scoperto più tardi" afferma Peccatori. A parità di precocità della diagnosi, invece, gli esperti sono abbastanza convinti che non ci siano differenze nella prognosi di un certo tumore tra donne incinte e donne che non lo sono.
La terapia di un cancro in gravidanza
È il punto chiave della questione: se si scopre di avere un tumore in gravidanza è possibile curarsi oppure no? Un tempo, come dicevamo, si imponeva una scelta drastica, in particolare per quanto riguardava radioterapia e chemioterapia. Oggi è opinione comune tra gli esperti che molte forme di terapia sono comunque possibili, a particolari condizioni.
Ovviamente non c'è una regola valida per tutte: già in generale ogni tumore è storia a sé, tanto è vero che uno degli obiettivi fondamentali della ricerca oncologica attuale è proprio la personalizzazione delle terapie, e a maggior ragione lo è se si verifica in un momento particolare come la gravidanza. L'approfondimento di Airc lo dice chiaramente:
“L'opportunità di intervenire, così come le modalità e i tempi del trattamento, vanno comunque stabiliti in ogni particolare situazione, tenendo conto del tipo di malattia, della sua diffusione e aggressività, dell'epoca della gestazione in cui è scoperta, ma anche dei desideri della paziente dopo che è stata ben informata dai medici, alla luce di valutazioni etiche (per esempio in relazione alla possibile interruzione della gravidanza) o personali (per esempio l'età o il fatto di avere già altri figli)”.
Eventuali interventi chirurgici necessari per l'asportazione del tumore possono in genere essere eseguiti senza particolari problemi – sempre se la situazione complessiva della mamma lo consente - perché sono oggi disponibili strategie anestesiologiche compatibili con il benessere del feto.
"Per quanto riguarda la chemioterapia, invece, sappiamo che andrebbe evitata nel primo trimestre, per il rischio di malformazioni congenite, ma anche che ci sono molecole che possono essere usate a partire dalle 12-14 settimane di gravidanza, in particolare antracicline come gli agenti alchilanti e i taxani" spiega Peccatori. In effetti molte forme tumorali consentono di attendere l'ingresso nel secondo trimestre. “Se proprio non è possibile aspettare - precisa l'oncologo - la donna deve essere informata del fatto che prima delle 12 settimane è elevato il rischio di malformazioni fetali”.
In generale, i farmaci possono essere impiegati fino a tre settimane circa dal parto, poi vengono sospesi in attesa della nascita, perché potrebbero interferire con la capacità dell'organismo materno di combattere il rischio di infezioni e di emorragia post parto.
Da evitare invece in gravidanza i farmaci ormonali come il tamoxifene, mentre una grande cautela andrebbe usata nei confronti dei farmaci di ultima generazione, i cosiddetti farmaci biologici o a bersaglio molecolare. “Alcuni come l'interferone alfa, l'imatinib o l'acido retinoico possono essere usati, con cautela e in particolari condizioni. Altri come l'anticorpo monoclonale trastuzumab andrebbero invece evitati”.
Chemioterapia e allattamento
I farmaci chemioterapici passano nel latte materno. Per questo, in caso di chemioterapia l'allattamento al seno è controindicato.
Grande cautela va riservata anche alla radioterapia, che in generale sarebbe posticipare a dopo il parto. "Nel primo trimestre andrebbe evitata perché può provocare malformazioni e più avanti perché può comportare ritardi dello sviluppo cerebrale fetale" afferma Peccatori. Anche in questo caso, però, possono esistere eccezioni: se il sito da trattare è lontano dall'addome (collo, ascella) anche la radioterapia può essere usata, sempre con le apposite schermature.
Infine, sicuramente incompatibili con la gravidanza sono trattamenti invasivi come il trapianto di midollo osseo, che richiede di fatto un azzeramento temporaneo della risposta immunitaria della persona che deve ricevere il trapianto.
Il momento del parto
Anche rispetto al momento del parto le cose stanno velocemente cambiando. Fino a pochi anni fa, la tendenza degli operatori era quello di anticiparlo il più possibile, per evitare di tenere il bambino in un ambiente considerato “pericoloso”, come l'utero di una mamma sottoposta a trattamento chemioterapico. Un atteggiamento che però aumentava i casi di prematurità, condizione a sua volta collegata a rischi per la sopravvivenza e il benessere del feto.
“Oggi l'indicazione è quella di programmarlo il più possibile a termine” afferma Peccatori. Per quanto riguarda la modalità, non ci sono indicazioni generalizzabili: in alcuni casi potrebbe essere indicato il cesareo, in altri si potrà comunque procedere con un travaglio (spontaneo o indotto) e un parto naturale.
Gli effetti della chemioterapia sul bambino
"Che effetti avranno questi farmaci sul mio bambino? Ne risentirà, e quanto?".
Per le mamme che decidono di sottoporsi a chemioterapia senza interrompere la gravidanza queste sono preoccupazioni – talvolta angosce – decisamente comuni. E questo è anche uno degli ambiti nei quali la ricerca si è data più da fare negli ultimi anni: cercare di capire se e quali conseguenze abbiano i farmaci antitumorali sullo sviluppo del feto.
I risultati degli studi sono incoraggianti. Se i trattamenti effettuati nel primo trimestre comportano un rischio piuttosto elevato di malformazioni e aborto spontaneo, le cose cambiano a partire dalle 12-14 settimane di gravidanza. In questo caso molti dei farmaci disponibili possono essere considerati relativamente sicuri, almeno sul fronte malformazioni ed effetti sul neurosviluppo. Lo dicono per esempio due degli studi più significativi condotti dal già citato Network internazionale su cancro, fertilità e gravidanza: quello pubblicato nel 2018 su Lancet Oncology e uno precedente, apparso nel 2016 sul New England Journal of Medicine, altra prestigiosa rivista scientifica.
Complessivamente, questi studi dicono che una chemioterapia effettuata nel secondo trimestre di gravidanza non aumenta il rischio di malformazioni, ritardi o alterazioni dello sviluppo cognitivo e difetti cardiaci dei bambini. Allo stesso tempo, però, indicano che c'è un aumento del rischio di alcuni esiti ostetrici come basso peso alla nascita (soprattutto per i trattamenti con derivati del platino) e necessità di ricovero in terapia intensiva neonatale (soprattutto per i trattamenti con taxani e per alcune forme di cancro, come i tumori gastrointestinali).
Si conferma inoltre un aumento del rischio di parto pretermine, che pur rimanendo piuttosto elevato (poco meno della metà dei casi) comunque è andato diminuendo negli anni, probabilmente perché oggi è più contenuta la tendenza dei medici a far nascere prima il bambino.
Fotoreportage dalla sala parto: Pamela e la sua gravidanza con un linfoma
Pamela, la mamma protagonista di questo fotoreportage, ha 37 anni ed è di Montefalco, in provincia di Perugia. Durante la gravidanza ha scoperto di avere un linfoma. Si è sottoposta a due cicli leggeri di chemioterapia e lo scorso 13 novembre è diventata mamma del suo piccolo, grande guerriero Nicola. Pamela è la prima protagonista di una serie di fotoreportage di nostrofiglio sul parto.
Chemioterapia e placenta
Perché i figli di mamme con tumore sottoposte a chemioterapia sono più a rischio di ritardo di crescita fetale e basso peso alla nascita rispetto ai figli di mamme sane? In parte questo potrebbe dipendere dal fatto che l'organismo materno è fortemente debilitato dalla malattia e non riesce a sostenere una crescita adeguata.
Ma secondo i ricercatori potrebbe esserci qualcosa di più e in particolare un effetto – negativo – dei farmaci sulla funzionalità della placenta. Per questo vari ricercatori del Network internazionale su cancro, fertilità e gravidanza stanno proprio cercando di capire se e come i farmaci antitumorali interferiscono con anatomia e fisiologia di questo organo fondamentale per il sostentamento del feto.
Uno studio pubblicato a marzo 2018 dal gruppo del belga Frédéric Amant suggerisce per esempio che alcuni chemioterapici possano danneggiare il DNA delle cellule del lato materno della placenta, mentre un lavoro preliminare in cui è coinvolto il gruppo di Peccatori suggerisce che questi farmaci comportino anche un danno di tipo vascolare. "Se questa osservazione sarà confermata - e il prossimo passo è studiare il fenomeno in modelli animali - in futuro si potrà cercare di prevenire il danno per esempio associando la chemioterapia a farmaci protettivi per la placenta, come l'aspirinetta o l'eparina", commenta l'oncologo.
Altre fonti utilizzate per l'articolo: materiale informativo della Società Italiana di Ginecologia e Ostetrica; documento "Carcinoma mammario in gravidanza" del Collegio Italiano dei Senologi.
Revisionato da Francesca De Ruvo - Aggiornato il 20.12.2021