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Trombofilia e rischio trombosi in gravidanza: tutto quello che c'è da sapere

di Valentina Murelli - 27.11.2023 - Scrivici

trombosi
Fonte: Shutterstock
Trombofilia in gravidanza: cosa comporta, come capire se si è a rischio trombosi, come evitarla. I sintomi e i rischi per il feto e per la mamma

In questo articolo

Trombofilia in gravidanza

In gravidanza il sangue tende a coagulare di più: una misura necessaria per ridurre la possibilità di emorragie durante il parto. Il rovescio della medaglia, però, è che questa tendenza può aumentare leggermente il rischio che si formino trombi (coaguli). Ma soprattutto, questo rischio diventa ancora più significativo se sono presenti altri fattori, ereditari o acquisiti, che portano a una predisposizione trombofilica. Vediamo che cosa si intende esattamente per trombofilia in gravidanza, quali rischi comporta, come scoprirla e come intervenire, con la consulenza della ginecologa Valentina Pontello e dell'ematologa Ida Martinelli.

Trombofilia e trombosi, di cosa parliamo?

"Letteralmente, la parola trombofilia significa amico del trombo, cioè del coagulo" spiega l'ematologa Ida Martinelli del Centro di emofilia e trombosi del Policlinico di Milano. "In altre parole, è la predisposizione a subire trombosi, quindi formazione di coaguli nelle arterie o nelle vene, dovuta a un'eccessiva tendenza del sangue a coagulare".

La trombofilia è una condizione che aumenta il rischio di coaguli di sangue, i quali, se non si dissolvono o se non vengono trattati rapidamente, possono mettere a serio rischio la salute della donna.

Da cosa dipende la trombofilia?

Durante la gravidanza il sangue tende a coagulare di più. "È una condizione fisiologica, che si instaura fin dall'inizio, accentuandosi nell'ultimo trimestre e nelle prime settimane dopo il parto: una strategia per impedire alle donne di morire dissanguate durante il parto" precisa Martinelli.

Questa condizione può aumentare leggermente il rischio di alcuni eventi trombotici, ma il problema si verifica in particolare se sono presenti altri fattori di rischio, come ad esempio: 

  1. Anomalie ereditarie della coagulazione del sangue

Quale è il più importante fattore di rischio per il tromboembolismo venoso in gravidanza? "Le trombofilie ereditarie, cioè con base genetica, sono dovute a mutazioni in fattori della coagulazione" spiega la ginecologa Valentina Pontello, esperta di gravidanze a rischio e consulente dell'associazione Ciaolapo Onlus per la tutela della gravidanza e della salute perinatale.

"Tra le forme più frequenti ci sono quelle dovute a mutazioni nel fattore V di Leiden e nel fattore II. Più rare sono le mutazioni a carico di antitrombina, proteina S e proteina C. Per quanto riguarda le mutazioni del gene MTHFR, sono da considerare trombofiliche solo se presenti in duplice copia, cioè derivate sia dalla mamma sia dal papà, e solo se associate a un effettivo aumento nel sangue dei livelli di una sostanza chiamata omocisteina".

Mutazioni nel fattore V, nel fattore II e del gene MTHFR

Mutazione del Fattore V di Leiden

Chi presenta la mutazione del fattore V di Leiden ha una mutazione nel proprio corredo genetico che predispone il sangue a una più marcata tendenza a coagulare.

Nel caso della mutazione del fattore V esistono due possibili assetti genetici: quello omozigote, più raro, in cui il profilo di rischio per la trombosi aumenta dalle 50 alle 100 volte, perché il paziente ha entrambe le copie del gene mutate. La forma eterozigote, invece, è la più diffusa e porta a un rischio di trombosi più sfumato (5-10 volte), perché il paziente riceve da uno solo dei propri genitori la copia mutata del gene.

Mutazione del Fattore II

La presenza della mutazione G20210A, detta del fattore II, è associata a elevati livelli di protrombina nel sangue la quale può portare alla formazione anomala di coaguli e quindi a un maggior rischio di trombosi venosa profonda e tromboembolismo venoso. In particolare, i soggetti eterozigoti per questa mutazione presentano un rischio di sviluppare trombosi venosa 3 volte superiore rispetto ai soggetti non mutati.

Mutazione MTHFR

La mutazione MTHFR è un difetto genetico che causa la riduzione o la perdita di attività di un enzima, il metilen-tetraidrofolato reduttasi. La conseguenza è un aumento dei valori di omocisteina nel sangue e una riduzione dei livelli plasmatici di acido folico. La mutazione MTHFR è considerata un fattore di rischio per lo sviluppo di trombosi, aborti spontanei e difetti del tubo neurale.

Complessivamente le trombofilie ereditarie sono presenti in circa il 15% della popolazione occidentale e sono responsabili di oltre il 50% delle trombosi venose in gravidanza.

  1. Anomalie acquisite della coagulazione del sangue

"Tra le forme acquisite, invece, riordiamo la sindrome da anticorpi antifosfolipidi, una malattia autoimmune che può aumentare le possibilità di avere complicazioni durante la gravidanza".

Per finire, anche altri aspetti possono aumentare il rischio di eventi trombotici in gravidanza. Per esempio:

  • l'età (più si avanti, più il rischio aumenta),
  • l'obesità, soprattutto se associata a un eccessivo aumento di peso nei nove mesi,
  • il fumo di sigaretta,
  • l'eccessiva sedentarietà.

Che cosa comporta la trombofilia?

La tendenza a una coagulazione eccessiva del sangue può portare alla formazione di trombi, cioè coaguli, con conseguenze diverse a seconda del vaso sanguigno interessato. "Dobbiamo distinguere le arterie, che portano il sangue ossigenato dal cuore agli organi periferici, e le vene, che fanno il contrario, portando il sangue povero di ossigeno dalla periferia al cuore, che lo invia ai polmoni dove viene ossigenato di nuovo" spiega Martinelli.

Le trombosi arteriose danno conseguenze come l'ictus o l'infarto. Le donne in gravidanza, però, non hanno un rischio diverso rispetto alla popolazione generale per questo tipo di trombosi. Quello che succede, invece, è che per loro aumenta un pochino il rischio di trombosi delle vene.

Le trombosi venose

"Le trombosi venose colpiscono in genere le gambe, e di solito una sola delle due" racconta Martinelli. "I sintomi principali sono il gonfiore della gamba, un senso di tensione, dolore". Se si verificano questi segnali, meglio avvertire subito il medico, soprattutto perché, in una piccola percentuale di casi, la trombosi alle gambe può dare una complicazione grave, potenzialmente fatale, che è l'embolia polmonare.

"Purtroppo, i sintomi dell'embolia sono inizialmente subdoli: fatica a respirare, un po' di affaticamento generale" spiega l'ematologa. In ogni caso, se è bene tenere presente questo rischio, è anche giusto ricordare che stiamo parlando di situazioni rare: "Ogni anno, ogni 10.000 donne in gravidanza si verificano circa 5-10 casi di trombosi, e di questi solo alcuni portano a embolia polmonare".

In gravidanza, inoltre, ci sono i rischi legati alla possibilità di trombosi della placenta.

Trombosi placentare

La placenta, come ben sappiamo, è l'organo attraverso il quale la mamma nutre e ossigena il feto. Se si formano dei coaguli a livello placentare, il sangue non riesce a circolare bene e si possono avere conseguenze sia per il feto, che non cresce più in modo ottimale, sia per la mamma stessa visto che anomalie della placenta sono legate per esempio al rischio di preeclampsia.

I sintomi possibili di trombosi placentare sono dunque la preeclampsia (che si manifesta con aumento della pressione materna e aumento delle proteine nelle urine) e il ritardo di crescita fetale.

Trombosi pelvica

La formazione di coaguli sanguigni potrebbe interessare anche la zona inguinale, e in particolare le vene della pelvi (trombosi della vena iliaca). In questo caso parliamo di trombosi pelvica, i cui sintomi non sono però sempre evidenti. La trombosi pelvica potrebbe manifestarsi con:

  • dolore a livello inguinale;
  • gonfiore della gamba;
  • dolore addominale o dorsale.

Che rischi corre una donna in gravidanza che abbia anche trombofilie ereditarie o acquisite?

Secondo le conclusioni di una revisione della letteratura scientifica sull'argomento, pubblicato da un gruppo di ginecologi dell'Università di Manchester, le donne con trombofilia ereditaria o acquisita sembrano correre un rischio più elevato di andare incontro a complicazioni precoci o tardive della gravidanza.

In particolare:

Il problema è che non sappiamo ancora quantificare esattamente questo rischio: studi diversi hanno dato risultati diversi, alcuni enfatizzando e altri limitando o addirittura escludendo la possibilità di un'associazione tra trombofilia e rischi in gravidanza. "Nel complesso, possiamo dire che l'associazione c'è, ma è debole" sostiene Martinelli. "Del resto, dobbiamo pensare che le complicazione ostetriche sono spesso multifattoriali, cioè dipendenti da una combinazione di fattori e non solo dal rischio trombofilico".

Come si vede se si è a rischio trombosi? Esiste un esame per vedere se si è a rischio di trombofilia?

Sì, esiste una batteria di esami per valutare se i fattori della coagulazione sono "in ordine" o se c'è qualcosa che non va. Si tratta del cosiddetto screening trombofilico, eseguito attraverso un semplice esame del sangue.

Secondo le Linee guida della Società italiana per lo studio di emostasi e trombosi (Siset), questo test dovrebbe includere l'analisi dei seguenti fattori: antitrombina, proteina C, proteina S, resistenza alla proteina C attivata e/o fattore V Leiden, mutazione G20210A, protrombina, omocisteina, anticorpi antifosfolipidi.

Lo screening andrebbe eseguito quando si pianifica una gravidanza, e non quando questa è già iniziata, proprio perché le variazioni della coagulazione associate a questo stato tendono a falsarne i risultati. In ogni caso, sempre secondo le Linee guida questo screening non è indicato per tutte le donne in gravidanza, ma solo per alcune categorie:

  • donne che abbiano già avuto trombosi venosa, o con parenti stretti che ne abbiano sofferto (storia familiare);
  • donne che abbiano una storia familiare per trombofilia ereditaria;
  • donne con aborti ricorrenti (molto consigliata è in particolare la ricerca degli anticorpi antifosfolipidi) o che abbiano avuto una morte fetale in utero in una precedente gravidanza, come indicato anche da una recente revisione della letteratura scientifica;
  • donne che, in una gravidanza precedente, abbiano avuto episodi di preeclampsia o di sindrome HELLP (una particolare forma di preeclampsia), ritardo della crescita fetale o distacco di placenta.

IL COMMENTO: PERCHÉ LO SCREENING NON È ADATTO A TUTTE

In seguito ai casi di morte materna e fetale che verificarono nel 2015, c'è chi propose l'estensione dello screening trombofilico a tutte le donne che pianificano una gravidanza, ma l'idea è stata accolta negativamente dal grosso della comunità scientifica.

"Questo per varie ragioni che non hanno semplicemente a che fare con il costo del test, come è stato ipotizzato" spiega la ginecologa Valentina Pontello. "Primo, perché sono esami che possono dare molti falsi positivi. Il che porterebbe a proporre terapie a donne che non ne hanno bisogno. Secondo, perché non esauriscono comunque tutte le cause possibili di trombofilia, molte delle quali non sono ancora note". Significa che ci si può trovare con un test che dice che va tutto bene, e poi invece avere dei problemi.

"Terzo, perché anche in presenza di un test che segnali qualcosa che non va, non sempre è chiaro come procedere: in alcuni casi l'utilizzo di terapie anticoagulanti preventive è controverso".

In presenza di un rischio trombofilico, ci sono terapie che possano prevenire eventuali complicazioni della gravidanza?

La terapia per ridurre il rischio trombofilico è a base di anticoagulanti, in particolare aspirina a basso dosaggio ed eparina a basso peso molecolare, che possono essere somministrate singolarmente o insieme.

L'aspirina viene assunta per bocca, mentre l'eparina è iniettata sottocute, in genere sull'addome.

Le Linee guida della Siset indicano esattamente in quali casi somministrare la terapia, che - quando indicata - andrebbe cominciata il prima possibile:

  • donne che abbiano avuto eventi di trombosi venosa;
  • donne che abbiano particolari alterazioni dello screening trombofilico, a maggior ragione se associate a complicazioni durante gravidanze precedente, oppure a storia familiare di trombosi o di complicazioni ostetriche.

Nel caso di donne con storia familiare di trombosi o di complicazioni ostetriche, ma senza alterazioni dello screening trombofilico, le Linee guida suggeriscono un più attento monitoraggio della gravidanza, senza particolari terapie preventive.

Che cosa bisogna fare se in gravidanze precedenti ci sono state complicazioni ma lo screening trombofilico è a posto?

Può capitare che nelle gravidanze precedenti si siano verificate complicazioni come ritardo di crescita, distacco di placenta, preeclampsia o morte in utero, ma che lo screening per la trombofilia sia a posto. Questa, al momento, è la situazione più controversa e non è contemplata dalle Linee guida. Alcuni medici e alcuni centri ritengono utile somministrare anche in questi casi terapie preventive, addirittura in fase preconcezionale, nonostante l'assenza di studi scientifici che ne sanciscano definitivamente l'utilità.

"Il punto è che gli studi che abbiamo a disposizione non ci dicono ancora abbastanza, e quindi il medico deve prendere decisioni anche al di fuori di quanto consigliato in via ufficiale" commenta Pontello. "Il che ovviamente non significa somministrare farmaci a caso, ma sulla base di un'accurata analisi della storia personale e familiare della sua paziente, del suo stile di vita, o dell'indicazioni di altre eventuali analisi".

Altri medici e altri centri hanno una posizione più conservativa, e cercano di evitare o limitare al massimo la somministrazione di anticoagulanti al di fuori delle indicazioni. "Non bisogna dimenticare che stiamo comunque parlando di farmaci" ricorda Martinelli. "Farmaci sicuri, certo, ma che per definizione non sono del tutto privi di effetti collaterali, e che possono anche passare la placenta e arrivare all'embrione.

Succede per esempio con l'aspirina, e non abbiamo studi che ci dicano se a persone che sono state precocemente esposte in utero all'aspirina a distanza di anni succede qualcosa di particolare oppure no".

In caso di gravi complicazioni in gravidanza, un esame istologico approfondito della placenta può aiutare, anche più di quanto possa fare lo screening trombofilico, a decidere cosa fare in gravidanze successive. "Un esame di questo tipo mette chiaramente in luce se ci sono stati eventi trombotici della placenta. Se sì, può sicuramente valere la pena di effettuare una terapia anticoagulante preventiva in gravidanze successive" dichiara Pontello. "Non tutti i centri, però eseguono questo esame in modo sufficientemente accurato e approfondito".

I farmaci possono aiutare, ma non risolvono tutto

Non bisogna dimenticare che, per quanto potenzialmente utili, gli anticoagulanti non sono la panacea di tutti i mali. "Chi si occupa di gravidanze a rischio tocca con mano che la prevenzione con anticoagulanti migliora l'esito delle gravidanze, ma bisogna dire che questo non vale sempre. Ci sono casi in cui anche questi farmaci servono a poco" sottolinea Valentina Pontello.

"Quello che è davvero importante in queste situazioni è che le donne non vengano lasciate sole. Succede ancora oggi che, di fronte a una morte in utero, una donna si senta dire che è stata sfortunata. Ecco, questo non deve accadere: casi come questo meritano tutta l'attenzione e gli approfondimenti possibili, al di là delle scelte terapeutiche che poi vengono fatte".

Come ridurre il proprio rischio trombofilico in gravidanza?

"Il primo consiglio è di cominciare a pensarci anche prima che la gravidanza cominci" suggerisce Pontello. Al di là di particolari predisposizioni, genetiche o acquisite, alcune situazioni che aumentano il rischio possono essere modificate. È il caso dell'abitudine al fumo, di un'eccessiva sedentarietà, di sovrappeso o obesità.

Come evitare la trombosi in gravidanza?

In assenza di fattori di rischio come le anomalie ereditarie o acquisite, per prevenire la trombosi in gravidanza è necessario conoscere gli altri fattori di rischio ed evitarli. Alcuni accorgimenti possono essere:

  • smettere di fumare;
  • mangiare in modo equilibrato e sano, evitando di mettere su troppo peso;
  • fare esercizio fisico;
  • bere molta acqua;
  • evitare di incrociare le gambe in modo da non ostacolare il flusso sanguigno.

"Il secondo consiglio - prosegue Pontello - è quello di programmare subito una visita con il ginecologo e gli esami del primo trimestre, prestando attenzione che la prima visita sia svolta in modo attento e accurato". Valutare bene la storia personale e familiare della donna può dare indicazioni molto utili per la gestione della sua gravidanza: è giusto che le donne pretendano queste attenzioni.

Altre fonti utilizzate:

Revisionato da Francesca Capriati

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