Sindrome di Medea
Medea, abbandonata da Giasone, il suo amato compagno, uccide i loro figli per vendicarsi. È la tragedia che racconta Euripide nel 431 a.C. Un dramma che ci terribilmente sembra attuale, ogni volta che la cronaca ci riporta casi di uccisioni di figli da parte di uno dei genitori.
In psichiatria forense questa tendenza viene definita sindrome di Medea. Ma quali sono le cause che scatenano questo disturbo? Abbiamo chiesto alla psicologa e mediatrice culturale dall'estero Agata Gallo se la depressione post parto può essere considerata una di queste.
Madri che uccidono e attualità
"Sembra impossibile ma non sono rarissimi i casi in cui le madri vengono accusate dell'omicidio dei propri figli. Le motivazioni vanno valutate caso per caso e ricercate nella storia personale della donna, ma volendo avventurarci in una generalizzazione, parte delle motivazioni di questo gesto sono da ricercare nella difficoltà della donna nell'accettare e gestire le emozioni e soprattutto le frustrazioni derivanti dal suo nuovo ruolo di mamma". Lo afferma la dottoressa Eleonora Iacobelli, psicoterapeuta, presidente Eurodap, Associazione Europea Disturbi da Attacchi di Panico e direttore scientifico Bioequilibrium, commentando l'omicidio di Elena 5 anni, uccisa dalla mamma Martina Patti.
"Un figlio comporta inevitabilmente uno stravolgimento dell'equilibrio lavorativo, affettivo e sociale dei genitori, ma soprattutto della madre che subisce anche uno squilibrio a livello fisiologico ed ormonale - aggiunge Iacobelli - La fatica, la sensazione di non essere adatte o all'altezza, lo sfinimento, il senso di inadeguatezza, la vergogna per non sentirsi all'altezza, insieme a sbalzi d'umore ingiustificati, possono non essere manifestati apertamente, ma crescere in maniera sotterranea fino a portare a vere e proprie psicosi. Quando una madre arriva a questo punto, tutto può accadere. I sintomi sono rintracciabili in uno stato confusionale, il delirio e le allucinazioni".
"In genere, quando una madre uccide il proprio figlio, c'è sempre qualcosa che precede il momento dell'omicidio ravvisabile nei suoi comportamenti, nelle relazioni con gli altri, nel suo passato. Pur sottolineando che ogni evento è a sè, i moventi possono ragionevolmente essere raggruppati in: sindrome di Medea; gravidanze indesiderate; intolleranza alla frustrazione che inevitabilmente un figlio genera; tentativo estremo di proteggerlo da un mondo pericoloso. Qualunque sia il motivo è evidente la negazione di un disagio psichico che si è manifestato nel peggior modo possibile e che, invece, meriterebbe di essere compreso e soprattutto curato ben prima che tutto ciò accada". conclude la dottoressa Eleonora Iacobelli.
1. Cos'è la sindrome di Medea?
Uccidere il proprio figlio per vendicarsi del padre è l'imitazione del gesto compiuto dalla Medea di Euripide. Dietro questo gesto, secondo il presidente della società italiana di psichiatri forense Giancarlo Nivoli, studioso della sindrome, vi è celata la volontà di togliere al marito la propria discendenza.
«L'uccisione dell'innocente è il fatto di cronaca più impressionante nella nostra civiltà, specialmente quando a commetterlo sono le stesse madri: il caso si riempie di psicologi e psichiatri in cerca del seme della follia che ha fatto nascere la malattia mentale» dichiara Agata Gallo.
L'immagine della madre è spesso legata all'amore e all'accudimento del proprio bambino: ecco perché ci si sente così disturbati quando ci si imbatte in casi di omicidi compiuti da una donna.
Ma non è solo fisicamente che si può uccidere un figlio. «La sindrome di Medea viene menzionata solamente in relazione al dramma dell'uccisione dei figli. Ma Jacobs nel 1988 metaforizza l'uccisione, definendo come complesso di Medea il comportamento materno finalizzato alla distruzione del rapporto tra padre e figli dopo le separazioni conflittuali: così l'uccisione diventa simbolica e ciò che si mira a sopprimere non è più il figlio stesso ma il legame che ha con il padre».
Una situazione che spesso si determina dopo separazioni conflittuali (che possono essere fisiche – genitori che si separano e cambiano casa – ma anche simboliche, come nel caso di separazioni in casa).
Esporre il bambino a questa continua guerra tra genitori «può determinare la comparsa di alcuni meccanismi di difesa propri della patologia borderline, per esempio l'onnipotenza, la svalutazione e la dissociazione, oppure altri effetti a lungo e breve termine riscontrati sui figli, come aggressività, egocentrismo, carattere manipolatorio, comportamenti autodistruttivi, falso sé, disturbi alimentari, depressione e scarso rendimento scolastico».
«Sempre più spesso capita, ad esempio nel caso di una separazione, che il genitore che ha in custodia i figli parli male dell'ex partner. Questo genera un abuso emotivo nei confronti del bambino, poiché si vanno a indebolire le basi emotive del suo essere, ovvero la figura materna e quella paterna».
Si inizia, così, una gara di lealtà in cui il figlio deve decidere tra la madre e il padre chi sia meglio.
2. Da dove nasce questo disturbo?
La psichiatria forense dopo un delitto simile ricerca nella storia della donna/madre le spiegazioni: come ha vissuto la propria maternità sin dal parto?
«Esiste un collegamento tra la sindrome di Medea e la depressione post parto. Non è un collegamento diretto, ma entrambi hanno un comune denominatore: sono il frutto della fragilità della donna, in una società che non riconosce in primis la sua debolezza dopo il parto».
I doveri di una neomamma
Poniamo l'attenzione «sul ruolo che la società impone alla madre: la donna che diventa neo mamma, invece di vivere un momento di pura delicatezza, viene sommersa da doveri. Prendersi cura del bambino, dover tornare in forma dopo il parto, il giudizio costante che le riversano quando nasce un bambino.
Il giudizio, anche se a fin di bene, porta la neo mamma a vivere tutto come una performance».
Bisognerebbe invece fare un passo indietro, «facendo sentire compresa, capace e accettata la neomamma».
La consapevolezza
Un altro tassello importante, che può scalfire la madre, è la consapevolezza: «l'immagine che si ha del parto e della maternità spesso non corrisponde alla realtà. Dalla televisione e dai film si ottengono delle immagini finte, idilliache, romantiche. In realtà, è necessario fare un esercizio di realtà, riprendendo la piena coscienza dell'evento parto e dell'evento figlio».
Essere consapevoli può aiutare non solo a gestire la gravidanza e il parto, ma anche ad evitare la sindrome di Medea che si sviluppa nei confronti del padre. «La consapevolezza della realtà porta a instaurare un rapporto corretto nei confronti del partner. Una gravidanza, infatti, porta sempre un piccolo terremoto emotivo e fisico nella coppia: passare dal due al tre non è semplice. In questo passaggio l'uomo fisicamente è estromesso e questo può metterlo in crisi: si può sentire meno padre, meno presenza utile».
3. Come riconoscere e affrontare la sindrome di Medea
Una madre/Medea non è facile da riconoscere.
Depressione post parto non riconosciuta
«Può capitare che una depressione post parto non riconosciuta, non curata, possa pian piano andare a colpire la fragilità della madre e possa trasformarsi nella sindrome di Medea».
Separazione
Così come può capitare nel momento della rottura di una coppia. «Il ruolo di chi sta intorno a una situazione di separazione può fare la differenza. Molte volte ci si ritrova di fronte a parenti e amici che invece di limitare un comportamento denigratorio del partner lo accentuano, si schierano dalla parte del genitore che denigra».
Alleviare una situazione di solitudine, disperazione e rabbia, soprattutto dopo una separazione, può evitare che si perda il contatto con la realtà.
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